JAMES HERBERT
SATANA
(Creed, 1990)
Un ringraziamento particolare a Richard Young,
vero paparazzo, ma anche vero gentiluomo
(di certo non paragonabile a Joe Creed, il
dubbio «eroe» di questo romanzo). Il suo aiuto
nelle ricerche è stato fondamentale.
Sono anche grato ad altri tre fotografi:
David Bennett per le sue storie sui paparazzi,
Bob Knight per i consigli tecnici e Dave Morse
per avermi lasciato utilizzare una certa casa.
Al giorno d'oggi i demoni sono
un'accozzaglia scadente...
1
l a prima cosa di cui è opportuno siate al corrente circa Joseph Creed è che vi trovate di fronte a un verme di prim'ordine (forse addirittura di ordine supremo, considerata la sua professione). La seconda è che si tratta del nostro eroe.
(Quest'ultima circostanza, incidentalmente, non è voluta — non da lui, perlomeno. Diciamo soltanto che il caso e l'ingloriosa natura del nostro protagonista hanno cospirato a renderlo tale.)
Il suo mestiere? Scattare foto di sorpresa ai ricchi, ai famosi, o a coloro che rientrano nella variegata categoria delle celebrità. Idealmente, queste istantanee sono del tipo che il soggetto — o vittima — preferirebbe non venissero pubblicate (naturalmente, meno risultano gradite maggiore è il loro valore sul mercato della carta stampata). Creed, dunque, è un paparazzo (un avvoltoio dell'obiettivo, qualcuno potrebbe definirlo). Il plurale è paparazzi, o «rettili», come le loro prede amano chiamarli, anche se sono in uso numerose altre definizioni: parassiti, sanguisughe, iene. «Feccia» è assai popolare. Per non dimostrarci troppo duri con la loro razza, tuttavia, bisogna specificare sin dal principio che esistono alcuni membri della categoria capaci di notevole cortesia, altri che si comportano addirittura come gentiluomini ove necessario e, sì, persino quelli degni di fiducia. Sfortunatamente, Creed non è fra costoro.
Talvolta — anzi, spesso — i suoi stessi colleghi, gli altri fotografi, paparazzi, rompiscatole, scimmie, lo evitavano (benché vada specificato che qui l'invidia giocava un certo ruolo, in quanto Creed possedeva la sconcertante abilità di catturare su pellicola il quasi impossibile, di scattare il non scattabile). Pensavano che i suoi metodi fossero spregevoli.
Un altro fatto che bruciava a non pochi in questa professione prevalentemente maschile era il suo successo con le donne. Le sue storie d'amore, per usare un termine fuori moda, raramente duravano a lungo, però erano frequenti e, tre volte su cinque, le sue compagne erano di aspetto decisamente notevole. Joe, bisogna ammettere, assomigliava un poco a Mickey Rourke, l'attore (un Mickey Rourke nella propria veste più trasandata, se riuscite a immaginare una cosa del genere) e, quando sorrideva in modo astuto, quasi beffardo, le ragazze intuivano subito di essere nei guai. E, Dio le aiuti, proprio quello era il fascino di Creed, ciò che attirava le signore. Loro si rendevano conto di avere a che fare con uno stronzo e, serve specificarlo, da questo punto di vista lui le deludeva raramente. Ciononostante, andavano matte per lui, ne saggiavano un poco e rimanevano sconvolte, benché non sorprese, quando si bruciavano. Le donne non sono semplici da decifrare.
Esistevano poi ulteriori aspetti negativi. Joe Creed poteva essere meschino, egoista, a volte persino infido. Non brillava certo per rettitudine morale, anche se talvolta era capace di grandi azioni. Sapeva dimostrarsi irritabile, ostinato, cinico e, se riteneva di potersela cavare, anche aggressivo. Possedeva alcuni amici, ma non veri amici. Eppure veniva accettato in ambienti che non avrebbero mai ospitato altri membri della sua categoria (un ennesimo motivo di invidia fra i colleghi): gli era consentito l'accesso ai bar dei ristoranti e dei club più esclusivi purché le sue macchine fotografiche non fossero tenute in bella vista, e i portieri e i buttafuori dei locali notturni più alla moda di Londra lo mettevano sull'avviso quando all'interno si trovava un personaggio degno delle sue attenzioni. Ciò accadeva soprattutto perché Creed stesso era un viso «conosciuto», avendo frequentato quei luoghi per così tanti anni; anche il suo nome era «noto», essendo apparso con tale frequenza sotto le fotografie dei ricchi e famosi. In sostanza, era divenuto parte integrante del circuito delle celebrità (o circo, se preferite). Sapeva inoltre come prosternarsi se le circostanze lo richiedevano e in quali mani lasciar cadere le foto quando si dimostrava necessario.
Dunque, questo è il nostro uomo. Solo una sintesi, ma sufficiente a ricavarne un'idea. È un verme, ma un ottimo professionista; sgradevole, ma interessante agli occhi di certe donne; accettato, benché forse non rispettato. Può darsi che finiate con l'amarlo o con l'odiarlo, oppure troverete magari un equilibrio fra i due estremi.
Sfortunatamente, le circostanze in cui lo incontriamo per la prima volta non sono troppo accattivanti.
Creed sta...
2
... facendo pipì nell'angolo di una tomba, all'interno di uno di quegli enormi mausolei funebri. In effetti, un sepolcro con vista panoramica, dato che sorge su una collinetta in un esteso cimitero, circondato, ma leggermente al di sopra di altri edifici dello stesso tipo. Oltre a questi stravaganti monumenti, esistono ettari di lapidi: croci, angeli, obelischi e lastre di marmo, molte delle quali sgretolate e marcite (mai, però, quanto ciò che riposa sotto di esse). Creed si chiude la cerniera lampo, rabbrividendo per quell'atmosfera gelida, umida e stantia, e si appoggia a un soppalco su cui giace una bara di pietra scheggiata. E continua ad attendere...
Creed aspirò una boccata di fumo dalla sigaretta che gli pendeva dalle labbra, riscaldandosi i polmoni e neutralizzando l'odore di muffa della tomba. Si grattò il mento, producendo con le unghie contro la barba ispida un rumore che risuonò forte nella camera di granito (per inciso, il nostro eroe ostentava guance mal rasate prima e dopo che ciò fosse di moda, esattamente come indossava abiti troppo larghi anche prima che diventasse una voga dettata dagli stilisti all'avanguardia). Controllò l'orologio, girando il viso verso la porta chiusa da cui filtrava una luce smorta. Non per la prima volta in quella mattinata si disse che dovevano esistere modi migliori di guadagnarsi da vivere.
Si chinò sull'obiettivo della Nikon, solo leggermente in quanto la macchina fotografica, con la sua lente da 400 millimetri, era montata su un alto treppiede. L'attrezzatura era puntata ai piedi della collinetta verso una fossa aperta, il cumulo di terra scura e ancora umida a fianco. Si immaginò che la lunga lente fosse un bazooka e fece esplodere mentalmente la buca, bisbigliando il potente sibilo del missile per creare l'effetto acustico. La terra si squarcia, frammenti d'ossa erompono dalla cavità, migliaia di vermi che si stavano nutrendo degli ultimi brandelli di carne acquistano la capacità di volare. Creed chiuse gli occhi.
Malsano, pensò. Aggirarsi nei cimiteri era decisamente malsano. Celarsi all'interno delle tombe costituiva un passatempo da degenerati. E tutto per qualche foto schifosa di gente schifosa che piangeva una persona che aveva fatto schifo. Merda, Creed, tua madre avrebbe voluto per te un futuro più degno.
Si raddrizzò, sbuffando il fumo senza togliersi la sigaretta dalle labbra. Piantala di lamentarti. Lo fai perché ti piace. L'orario di lavoro può anche essere folle, gli scenari spesso avvilenti (esaminò l'arredamento in pietra), eppure fremi ancora quando arriva il momento, quando l'inquadratura è nell'obiettivo, quando il tuo dito fa scattare l'otturatore al momento giusto e capisci, al di là di ogni dubbio, di aver catturato l'immagine, la foto perfetta. Niente di paragonabile a questo, non è vero? Persino l'assegno che ricevi non è soddisfacente quanto l'attimo dello scatto. No, il momento è tutto, il momento detta legge. Il nascondersi, lo sparire dalla vista, l'attesa, la programmazione, tutto rientra nel gioco, ma il momento è puro orgasmo. Se poi sapevi di avercela fatta, di aver imprigionato sulla pellicola quell'attimo supremo, l'eccitazione durava finché le foto non erano stampate. A quel punto, con un po' di fortuna, eri già passato al lavoro successivo e forse stavi addirittura progettando quello che sarebbe seguito, benché la pianificazione svolgesse un ruolo piuttosto scarso, visto che generalmente tutto capitava per caso (dovevi semplicemente farti trovare pronto sul posto). Dammene tre importanti, Signore, era la costante preghiera di Creed. Il principe Carlo che piange l'amico scomparso sulla pista di sci di Klosters, John Lennon che firma un autografo per colui che si accinge ad assassinarlo, uno o due monaci buddisti in fiamme. Qualcosa di significativo, Signore, qualcosa di meritevole di diffusione mondiale, da non meno di sei zeri sull'assegno e pubblicazione in prima pagina. Dammi un classico come Jack Ruby che spara a Lee Harvey Oswald o come i bambini vietnamiti che friggono nudi da un attacco al napalm. Persino Joan Collins senza parrucca potrebbe andare. Sii buono con me, Dio, perché il tempo stringe.
Spense la sigaretta sulla tomba più vicina. Sarebbero arrivati entro breve, i dolenti, gli avvoltoi e coloro che conoscevano davvero la defunta e volevano assicurarsi che la vecchia megera venisse sotterrata come si deve.
Creed non aveva mai udito o letto una sola parola gentile nei confronti di Lily Neverless, l'attrice (attrice? aveva recitato la medesima parte per quasi sessant'anni, e il ruolo le era risultato assai semplice in quanto aveva sempre impersonato se stessa) che quella mattina stava per essere seppellita in quel cimitero per ricchi. Una sgualdrina nevrotica e arpia, ecco che cos'era stata Lily nella vita, sul palcoscenico e sullo schermo. Ciononostante, il pubblico l'aveva adorata proprio perché cattiva, malvagia, assolutamente perfida. Quello era stato il suo marchio di fabbrica. Mentre Joan Crawford aveva picchiato i propri figli con gli appendiabiti, la vecchia Lil aveva bastonato i mariti (quattro in tutto) con dichiarazioni pubbliche e avidamente accolte circa i loro difetti privati. Erano meschini e avari, amanti penosamente inadeguati, bugiardi, ubriaconi, patetici e porci. Uno di loro, aveva proclamato lei per facilitare le pratiche di divorzio, era un FINOCCHIO! La denuncia di quel povero diavolo, presentata subito dopo lo scioglimento legale del matrimonio, non era neppure arrivata in tribunale: un arresto cardiaco lo aveva stroncato il giorno prima dell'udienza. Per ironia della sorte, era stato lui a generare l'unica figlia di Lily, benché anche questa circostanza fosse stata messa in dubbio a seguito delle rivelazioni dell'attrice. Un altro dei quattro malcapitati aveva condiviso un simile fato, solo che l'infarto lo aveva ridotto come un vegetale invece di ucciderlo. In un certo senso, il suo destino era stato anche più crudele, perché si trattava di un uomo giovane, più di vent'anni meno di Lil, in effetti (e molto prima che i giovani stalloni diventassero un genere diffuso).
Lily aveva impiegato meno di tre mesi per disfarsi del vegetale, e la leggenda narra che nella richiesta di divorzio fosse stata citata anche la crudeltà mentale da parte di lui. Forse i suoni gorgoglianti che il disgraziato emetteva nel tentativo di comunicare (a quanto pareva il massimo che riuscisse a fare con una lingua inerte come un pene flaccido) possedevano una tagliente nota di sarcasmo che offendeva la natura sensibile della diva. Oppure, il fatto che dovesse essere nutrito da un'infermiera durante le frequenti e sontuose feste che Lily organizzava (senza dubbio una faccenda imbarazzante e in grado di inibire qualsiasi conversazione) aveva sottoposto a eccessiva tensione i suoi sforzi di dimostrarsi una lieta padrona di casa. In ogni caso, lei aveva ottenuto il divorzio.
Particolare interessante, dopo soli dieci mesi di matrimonio il suo primo marito era svanito nelle foreste pluviali del Brasile, senza che di lui si sapesse più nulla. All'epoca era una star hollywoodiana di seconda categoria (che, guarda un po', aveva partecipato a più di un film ambientato nella giungla, benché le riprese fossero state effettuate in un teatro di posa della Warner Bros), mentre Lily era appena arrivata dall'Europa, dove era stata un'attricetta di teatro. Solo Dio, il marito stesso e Lil sapevano che cosa lo avesse spinto a precipitarsi fra gli arbusti in quel modo, ma i primi due presentavano problemi di comunicazione e l'ultima non forniva spiegazioni.
Tuttavia, la vera chicca era la maniera in cui il suo quarto marito aveva tirato le cuoia.
Quel povero vegliardo (era più vecchio, molto più vecchio di Lily) aveva deciso di ricorrere all'eutanasia su se stesso nel giorno del proprio ottantasettesimo compleanno. Eutanasia è il termine sbagliato, in effetti, perché il metodo da lui scelto era stato tutt'altro che indolore; per la sua età, inoltre, godeva di ottima salute e la sua mente funzionava ragionevolmente bene, salvo qualche occasionale divagare sui tempi andati. Di conseguenza, nessuno aveva capito come mai avesse polverizzato il suo bicchiere da brandy favorito in un tritatutto per prepararsi un tramezzino al burro e granuli di vetro. Di certo, era stato detto, dovevano esistere modi più semplici per andarsene, particolarmente a quell'età avanzata. Ottima idea servirsi di un bicchiere da brandy, ma, santo cielo, per riempirlo fino all'orlo del migliore liquore e usarlo per inghiottire il maggior numero di analgesici e sonniferi su cui riesci a mettere le mani e infine brindare alla pace eterna prima di infilarsi un passamontagna di plastica. Il biglietto che aveva lasciato non spiegava un bel niente: «Avuto abbastanza», stava scritto con calligrafia malferma. Comunque, a quel tempo Lil aveva ormai imparato a vestirsi di nero con stile considerevole e le sue veglie funebri (il marito invalido era morto e sepolto da anni, mentre l'indubbia dipartita dell'esploratore della giungla era stata celebrata in sua assenza) erano ricorrenze gioiose.
Ora, alle sue esequie, parecchi fra i presenti, in caso non fosse stato consentito di ballare nelle navate, avrebbero sicuramente agitato le natiche durante il requiem, visto che lei si era creata un numero pazzesco di nemici nell'ambiente cinematografico e altrettanti al di fuori. Tuttavia, come abbiamo già detto, il pubblico l'aveva adorata perché, alla resa dei conti, Lily Neverless era stata una grande attrice quando recitava la parte della Donna-che-ami-odiare. Si dice che persino Bette Davis avesse invidiato la sua immagine biliosa.
Creed batté i piedi, i cui alluci erano divenuti insensibili per il freddo. Cattiva circolazione, si rammentò, e il fumo non aiuta. Frugò nel taschino della giacca militare (il tipo di giaccone ampio, pieno di tasche e lungo fino alla coscia indossato dalla fanteria americana durante la seconda guerra mondiale) e ne trasse una sigaretta. Se la infilò fra le labbra e passò a fatica accanto al treppiede per accostare il viso fra le sbarre arrugginite della porta chiusa. I suoi occhi si spostarono a destra e a sinistra mentre la mano affondava in un'altra tasca in cerca dell'accendino.
Azione! Sagome nere e lucide che scivolavano solennemente lungo il viale del cimitero, guidate dal lungo carro funebre che trasportava il corpo di Lily. Era quasi giunto il dannato momento. Che cosa diavolo trovassero da elogiare gli sfuggiva completamente, ma del resto, lui supponeva, il mondo dello spettacolo aveva tutto a che spartire con la finzione e nulla con la realtà.
Si spostò a ritroso nell'ombra mentre il corteo si avvicinava, la sigaretta ancora spenta. Controllò un'ultima volta l'obiettivo, quindi rimase lì accanto in attesa.
I dolenti spuntarono dalle macchine e si misero rispettosamente al seguito del feretro; qua e là, alcuni fazzoletti asciugavano le guance. Dopotutto, forse qualcuno di loro ti amava, Lil, riflette Creed aggiustando il fuoco e ispezionando la piccola folla per avvistare le «facce». Ah, un certo numero di notorietà. C'era Gielgud, la baronessa Comesichiama — come accidenti era il suo nome? Ci pensasse il responsabile del settore fotografico a identificarla, visto che lo pagavano per questo. Attenborough? Sembrava proprio lui. E quell'altro? Cristo, ma era ancora vivo? Non girava un film da almeno quindici anni! Vedendolo, niente da meravigliarsi: la senilità aveva ovviamente preso il sopravvento.
Un gruppo di vecchi divi era radunato dietro la bara, senza dubbio tutti intenti a chiedersi chi sarebbe stato il prossimo ad andarsene. Ma chi era quella laggiù, più giovane di Lily di una generazione? Maggie Smith? Forse, ma del resto, fuori del palcoscenico, lei aveva l'aspetto di una persona qualunque. Per finire, una spruzzata di noti registi e uno o due impresari.
Creed si mise all'opera, puntando, mettendo a fuoco, scattando e passando al soggetto successivo. Okay, sir John, è davvero l'ombra di un sorriso quella che vedo? Coraggio, non essere così maledettamente enigmatico, non sei sulla scena. Un piccolo sogghigno discreto è tutto ciò che mi serve. Fatto! Grazie mille. A chi tocca ora?
Quello là. Sicuro, conosco la sua faccia. La sua specialità erano i ruoli da caratterista. Sta forse ridendo sotto i baffi? Magnifico. Click.
Creed continuò a scattare, totalmente felice e del tutto dimentico del freddo. Cambiò pellicola e lasciò vagare l'obiettivo, cercando nella folla le celebrità, formulando mentalmente una storia dietro ogni singola inquadratura: un ministro in intensa conversazione con una seduttrice dello schermo le cui propensioni erano indirizzate sulle donne e non sugli uomini; il nasuto presidente della principale catena di negozi del Paese, reduce da un considerevole incremento di notorietà a causa delle rivelazioni scandalistiche della sua terz'ultima amante; l'annunciatore televisivo che il recente aumento di stipendio aveva elevato ben al di là della sua posizione (e dei suoi meriti, come avevano sottolineato gli indignati rivali). La grande speranza di Creed era che una persona sconvolta oltre ogni limite balzasse sulla bara nel momento in cui veniva fatta scendere nella fossa, ma il buonsenso gli suggeriva che ciò non sarebbe mai accaduto, perché nessuno sarebbe stato tanto disperato per la morte di Lily (neppure i contabili della Twentieth Century Fox, per la quale la defunta aveva rappresentato una cospicua fonte di denaro da anni a quella parte).
Passò alla seconda Nikon, equipaggiata con uno zoom, e scattò generiche fotografie alla folla, selezionando un singolo individuo solo occasionalmente.
Scosse la testa con disappunto quando infine i presenti cominciarono ad andarsene. Era esistita una tenue possibilità che la figlia di Lily Neverless, l'unica congiunta ancora viva a quanto era dato di sapere, avesse ricevuto il permesso di presenziare. Un simile avvenimento avrebbe reso un po' più piccante la cerimonia, soprattutto se al suo fianco si fossero presentati due infermieri in divisa (d'accordo, forse al giorno d'oggi si mostrava maggiore discrezione, ma questo non impediva all'immaginazione di Creed di drammatizzare o caricare lo scenario), ma era evidente che chiunque si occupasse ora della sua custodia aveva deciso di non lasciarla libera per l'occasione. Peccato.
Quando quasi tutti si furono allontanati, Creed si spostò al centro del mausoleo e accese la sigaretta che era rimasta penzolante fra le sue labbra durante la fase di attività. L'evento era impresso su pellicola, il lavoro era concluso, ma dove stava lo scatto, quello che avrebbe reso gli altri fotografi, il resto del branco tenuto a bada all'esterno del cimitero con i curiosi e agli ammiratori, verdi di invidia?
Si concesse un sogghigno stanco. Questo era il guaio dei giovani leoni dell'obiettivo: niente palle. Erano ormai rimasti relativamente pochi paparazzi disposti ad assumersi veri rischi o perlomeno a tentare di fregare il sistema; oggigiorno si pretendeva tutto su un piatto d'argento. In verità, erano disposti a prendersi a calci, a gomitate e a spintoni per un'inquadratura pulita, ma l'astuzia e la faccia tosta sembravano scarseggiare. Lui era arrivato in quel camposanto di lusso alle sei del mattino (questa è dedizione!) e aveva guidato lungo gli alti muri di cinta finché non aveva trovato un punto tranquillo a una certa distanza dal cancello d'ingresso. Parcheggiata la macchina al riparo di una macchia d'alberi, si era servito di una scaletta di alluminio (un equipaggiamento spesso essenziale) per raggiungere la sommità del muro. Il treppiede e la borsa con le macchine fotografiche erano stati calati dall'altra parte con l'ausilio di un cavo di nylon munito di uncino a un'estremità, usato poi per recuperare la scaletta. Creed era saltato all'interno del cimitero e aveva atteso, rannicchiato contro la recinzione, che ci fosse luce sufficiente per scorgere una fossa aperta; se invece non fosse stata scavata la sera prima, avrebbe aspettato l'arrivo degli inservienti per seguirli fino al luogo designato. In realtà, trovarla si era dimostrato più semplice di quanto non avesse pensato, perché esistevano zone vergini ovviamente riservate in anticipo da coloro che potevano permettersi il deposito (la battuta è involontaria). Su un pezzo di cartone piantato in cima al mucchio di terra di fianco alla cavità oblunga stava scritto appezzamento 1290 NEVERLESS.
Lui aveva quasi urlato per la gioia quando, ispezionati i dintorni, aveva adocchiato il mausoleo grigio sulla collinetta a non molta distanza: una visuale perfetta, purché qualche sconsiderato non lo avesse chiuso a chiave.
Era stato di nuovo fortunato: benché la ruggine rendesse difficile girare la maniglia, la porta si era aperta. Del resto, perché sarebbe dovuta essere sbarrata?
Il gemito da film dell'orrore prodotto dai cardini arrugginiti era stato alquanto sconcertante e lo sgradevole odore all'interno non gli aveva certo rallegrato lo spirito, ma Creed si era compiaciuto con se stesso. Aveva allestito la propria base e iniziato la veglia.
Quattro ore più tardi era tutto finito, senza nulla di speciale da mostrare. Alcune foto della folla abbastanza decenti, qualche primo piano di vecchie glorie ormai sbiadite e rimbambite, ma niente di elettrizzante. Beh, non si poteva sempre vincere; in effetti, gli assi erano rari. Domani, però, era un altro giorno, e nuove opportunità lo attendevano dietro l'angolo. Sii pronto e fatti trovare sul posto.
Se davvero lui avesse saputo prendere con filosofia il proprio lavoro, certo non avrebbe gridato una parolaccia prendendo a calci la bara più vicina. La pietra si sgretolò, lasciando una cicatrice bianca come un osso. Invece di scusarsi per l'offesa, Creed sferrò un'altra pedata.
Si girò poi verso la macchina fotografica sul treppiede, un alluce non più insensibile per il freddo, bensì pulsante per il dolore. Dopo un'ultima boccata alla sigaretta, gettò il mozzicone in un angolo. La sua mano andò alla vite che assicurava la Nikon al supporto e rimase paralizzata.
Non tutti i dolenti si erano allontanati, benché persino gli inservienti avessero finito di ricoprire la fossa e fossero scomparsi. Qualcuno era in piedi all'ombra di un albero.
Creed strizzò gli occhi nel tentativo di scorgere meglio la figura prima di ricordarsi di avere a portata di mano gli strumenti di ingrandimento. Si chinò sull'obiettivo e alterò con cura l'angolatura della macchina fotografica.
Scarpe nere, pantaloni scuri, impermeabile grigio furono tutto ciò che riuscì a vedere attraverso la lente. Inclinò ulteriormente la Nikon, ma la testa e le spalle dell'uomo rimasero parzialmente celate dalle foglie più basse.
Perché quell'individuo aveva deciso di fermarsi dopo che tutti gli altri se n'erano andati? Come mai si nascondeva? Si era forse introdotto abusivamente? Quella mattina i controlli dovevano esser stati molto severi proprio per evitare ogni intrusione, ma del resto lui stesso era entrato piuttosto facilmente. Forse si trattava soltanto di un giornalista incaricato di scrivere un articolo sul funerale.
Movimento. L'uomo stava avanzando, chino sotto i rami. Si stava togliendo la sciarpa che gli aveva coperto parte del viso. Cristo, che faccia! O era molto vecchio, oppure aveva avuto un sacco di problemi. Sicuramente per lui era passata da un pezzo l'ora di tirare le cuoia. In quel momento stava guardandosi attorno per assicurarsi che i paraggi fossero sgombri, le ciocche di capelli rigide e piatte come se fossero state saldate sullo scalpo.
Creed gli scattò una foto e, immediatamente, se ne chiese il motivo. Quel tizio non si sarebbe mai rivelato l'istantanea: doveva essere un intruso, un cronista, una conoscenza o forse una vecchia fiamma della defunta. In qualsiasi caso, non sembrava né si comportava come una celebrità.
Raddrizzatosi, il nostro eroe osservò lo sconosciuto fermarsi di fronte alla tomba appena sigillata. Tre o quattro secondi di pausa, quindi l'uomo vi girò attorno finché non si trovò di nuovo con le spalle al mausoleo, per poi ripetere il circuito (questa volta dalla parte opposta) fissando solennemente il tumulo quasi si aspettasse di vederlo muovere.
Cominciò il viaggio di ritorno in senso orario, ma si bloccò con la schiena rivolta al fotografo nascosto. Le sue spalle iniziarono a scuotersi, dapprima lievemente, come un vago tremore che si trasformò in breve in una serie di sussulti e infine in contrazioni spasmodiche di tutto il tronco.
Il vecchietto è davvero sconvolto, riflette Creed cercandosi un'altra sigaretta. La estrasse dalla tasca e se l'accese proprio mentre una risata sgangherata risaliva il pendio fino a penetrare all'interno del mausoleo.
Creed fissò stupefatto lo sconosciuto dall'impermeabile grigio. Non stava affatto piangendo — quel folle sghignazzava! Con un sorriso sarcastico sulle labbra, scosse lentamente il capo, chiedendosi che cosa potesse aver fatto a quel tipo la vecchia Lil perché la sua scomparsa provocasse una simile ilarità. Forse si trattava di un parente, un amico o uno dei suoi ex, oppure semplicemente di qualcuno che lei aveva bistrattato. Peccato che gli risultasse del tutto ignoto: un viso conosciuto che rideva sul cadavere di Lily Neverless avrebbe reso una cifra rispettabile.
In qualunque caso, era uno spettacolo con cui valeva la pena di finire il rullino. Si chinò sulla Nikon. D'accordo, amico, girati un pochino in modo che si possa vedere la tua faccia.
Il dolente felice ignorò la richiesta.
Creed lo fotografò ugualmente, ma dopo due scatti l'otturatore si rifiutò di obbedire; seccato, lui prese l'altra macchina che giaceva su di una tomba senza mai staccare lo sguardo dalla misteriosa figura. In quel momento accadde qualcosa che lo fece rimanere attonito.
L'uomo cadde in ginocchio e cominciò a grattare il tumulo di terra soffice.
«Che io sia dannato!» bisbigliò Creed. Pazzesco! Aggirato il treppiede, sollevò la seconda Nikon e inquadrò lo sconosciuto intento a scavare. Uno, due, tre scatti dell'incredibile operazione. Al quarto, il tizio aveva smesso.
Da quell'angolatura era difficile esserne certi, ma Creed ritenne che l'uomo si stesse sbottonando l'impermeabile. Ed era proprio così: apertolo, stava estraendo qualcosa da una tasca. Chinatosi di nuovo, ora...
Con gli occhi lucidi d'eccitazione, Creed borbottò un'oscenità. Se solo il folle fosse stato rivolto verso di lui...
Ma che cosa diavolo combinava? Armeggiava ancora con i vestiti. Oh, no, non poteva fare una cosa simile! Il nostro eroe si avvicinò la macchina fotografica al viso. Merda, che foto fantastica sarebbe stata, se quel tipo non gli avesse voltato la schiena. Inservibile, naturalmente, visto che nessun giornale l'avrebbe mai pubblicata. Nessun giornale inglese, perlomeno. Alcune riviste europee, però, avrebbero apprezzato l'idea di acquistare l'istantanea di qualcuno che pisciava sulla tomba della grande Lily Neverless.
Aspetta un attimo, non stava... Oh, santo cielo, no! Nessuno avrebbe fatto questo in piena luce, per non parlare, poi, su una fossa! Era osceno! Creed fu sul punto di sogghignare. Una cosa del genere era maledettamente disgustosa!
Tornò a sollevare la macchina fotografica.
La testa dell'uomo era piegata in avanti, come se lui stesso fosse ansioso di osservarsi mentre si masturbava, e le sue spalle si muovevano ritmicamente. Uno che prediligeva l'uso di entrambe le mani, si disse Creed con un ghigno sarcastico. Scattò un paio di foto, ma rinunciò a prenderne una terza.
Alquanto noioso, riflette fra sé. Anche un'inquadratura frontale lo sarebbe stata. Malsano, ma decisamente noioso. Se l'uomo avesse avuto una compagna con cui copulare sulla tomba, la cosa si sarebbe rivelata interessante e smerciabile (benché persino le riviste scandalistiche più piccanti sarebbero state costrette a oscurare di molto la foto prescelta). Peccato che il pervertito fosse un solitario.
Il tizio si stava agitando in crescendo, e stranamente (beh, ancora più stranamente) sembrava parlare nel contempo. Aspetta, non parlare, bensì pregare, o forse cantilenare. Le parole che si diffondevano in direzione del mausoleo parevano possedere una certa cadenza, come una litania monotona, un affastellarsi di sillabe prive di significato simile a quelle che potevi udire ogni domenica in chiesa. Se questa era l'idea di una cerimonia funebre di qualche oscura setta religiosa, Creed si chiese a che cosa sarebbe assomigliato un battesimo o un matrimonio. Del resto, poteva anche darsi che quel tipo amasse lavorare con un accompagnamento musicale.
Il nostro eroe iniziò a canticchiare a propria volta un motivo, ma smise rapidamente, accigliandosi in intensa concentrazione.
Sul luogo dell'estremo riposo di Lily Neverless stava accadendo qualcos'altro: l'erba ondeggiava.
L'erba ondeggiava? Creed fece una smorfia. Che stupido, è soltanto l'effetto della brezza, ecco tutto. Solo un alito di vento che agitava il prato. Il pervertito si stava ancora divertendo: ehi, ma la brezza non poteva agitare il terreno!
Joe sbatté le palpebre. Non era possibile che la terra si muovesse in quel mondo, che si increspasse, a meno che, là sotto, qualcuno non si rifiutasse di rimanere sepolto.
Strinse con forza gli occhi, quindi li riaprì.
Il tumulo era immobile. Evidentemente, Lily si dimostrava insensibile alle invocazioni o alle magie del pazzo, qualunque fosse lo scopo di quel dannato cantilenare. Era la terra attorno alla tomba che si stava muovendo, l'erba di fianco alla fossa che danzava.
Il sussultare del terreno era minimo, a malapena distinguibile; se fissavi intensamente, molto intensamente, il moto risultava quasi nullo, solo un accenno ai limiti del campo visivo. L'erba, però, stava ondeggiando al di là di ogni possibile illusione ottica e, per quanto il fenomeno potesse essere causato da un leggero vento, i fili si agitavano in diverse direzioni, mentre i ciuffi si piegavano l'uno contro l'altro, intrecciandosi a vicenda. Niente di tutto ciò appariva logico.
Gli sforzi dell'uomo erano divenuti rigidi nella loro intensità, come se stessero raggiungendo il culmine. La sua voce non poteva dirsi forte, ma in qualche modo risuonava con maggiore potenza.
Creed puntò la Nikon. L'incresparsi del terreno non sarebbe mai potuto rimanere impresso su pellicola, e l'erba sarebbe risultata un ammasso confuso anche se la nitidezza fosse stata massima. Ciononostante, lui si sentì costretto a conservare una traccia di questo incredibile episodio, non fosse altro che per dimostrare a se stesso di non aver sofferto di allucinazioni (non era affatto certo di che cosa avrebbe potuto stabilire una fotografia, ma sarebbe stato comunque meglio di niente).
Inquadrò prima la zona di fronte all'uomo inginocchiato, la terra che sembrava agitarsi, quindi la nuca dello sconosciuto, servendosi delle sottilissime ciocche di capelli per la messa a fuoco. Quest'ultima operazione si rivelò alquanto complicata, perché la testa del soggetto si rifiutava di rimanere ferma. Il tizio stava raggiungendo rapidamente la gratificazione.
L'indice di Creed si irrigidì sull'otturatore. Dovette sforzarsi di controllare le mani, che improvvisamente erano scosse da un tremito — non certo dovuto all'eccitazione sessuale, bensì a una strana sensazione di inquietudine, molto simile alla paura. Di sicuro, l'impossibilità di capire costituiva la parte principale di quel disagio.
La sommità del cranio dell'uomo si offrì alla macchina fotografica quando il suo collo si inarcò all'indietro. Creed cominciò a scattare, trattenendo il respiro e mantenendo i gomiti incollati alle costole; il primo click risuonò proprio...
...mentre lo sconosciuto, girata la testa di lato, fissava direttamente l'obiettivo.
Joe si ritrasse di scatto dalla Nikon come se una vespa si fosse infilata nella lente, ma continuò a guardare l'uomo...
...la cui bocca si aprì, il cui viso scavato si soffuse di rosso, il cui corpo parve solidificarsi.
Per un breve, ma infinito attimo, fotografo e folle si osservarono a vicenda.
E in quel breve, ma infinito attimo, Creed sentì che l'interno del suo cranio veniva svuotato, che qualsiasi strato di consapevolezza stesse a protezione della parte più intima della sua mente era stato grattato via, lasciando le sue profondità esposte e sanguinanti.
Arretrò barcollando per lo choc, inciampò nel treppiede e cadde a terra trascinandolo con sé, urtando malamente un gomito contro la pietra mentre il rumore dell'attrezzatura che si schiantava al suolo echeggiava nella cavità del mausoleo.
Alzatosi faticosamente sulle ginocchia, controllò le macchine fotografiche: sembravano a posto, anche se sarebbero dovute essere esaminate con maggiore attenzione in seguito per verificare eventuali danni.
Ovviamente non si era dimenticato dell'uomo all'esterno: semplicemente, in quella circostanza, non aveva occupato il primo posto nella sua mente. Di colpo Joe si ricordò quegli occhi penetranti, quasi graffianti.
Si trascinò in piedi, il braccio destro insensibile dal polso alla spalla, e avanzò verso la luce, determinato a non lasciarsi intimidire: dopotutto, era quel folle a essere stato sorpreso in una situazione compromettente.
Ciononostante, guardò al di là delle sbarre con una certa ansia. Ma non c'era più nessuno. Il pazzo se n'era andato. Rimanevano soltanto le elaborate locandine di pietra dei defunti.
3
d unque, eccovi l'antipasto.
Il funerale di una famosa ma vetusta attrice, un mentecatto (così lo giudichiamo, perlomeno finora) intento a commettere un atto di estrema indecenza sulla sua tomba e il nostro eroe, Joe Creed, impegnato in ciò che sa fare meglio: rubare, appropriarsi di momenti delle vite altrui.
Un esordio in tono abbastanza sommesso.
Creed scarpinò attraverso il cimitero reggendo scaletta, treppiede e borsa con le macchine fotografiche, guardandosi costantemente alle spalle in entrambe le direzioni, quasi aspettandosi di scoprire il lunatico che lo spiava da una siepe o una lapide.
Avvertiva uno strano senso di gelo alla nuca, il genere di fenomeno che ti assale ascoltando una storia davvero agghiacciante basata su fatti reali o quando un sinistro scricchiolio al piano inferiore ti sveglia nel cuore della notte. Essendo un pragmatico di natura, si sforzò di scrollarsi di dosso quella sensazione, senza però riuscirci perché la sua inquietudine derivava in massima parte dall'impressione di essere osservato.
I morti amano stuzzicare, si disse. Starai bene una volta tornato fra i vivi e i quasi vivi. Del resto, non capita tutti i giorni di vedere un folle che si masturba sopra un cadavere. Forse il degenerato era un ammiratore di lunghissima data e quel gesto rappresentava la cosa che più si avvicinava allo scopare la vecchia megera. Meglio di una foto autografata, perlomeno.
E tutta quell'attività attorno alla tomba? Erba agitata, terra in movimento! Forse anche Lil stava dando i numeri.
Rabbrividì. Il suo umorismo macabro non funzionava a dovere. Era certo di aver scorto quel subbuglio, ma il lato razionale del suo carattere, accresciuto dal già citato pragmatismo (per non parlare del suo innato cinismo), gli suggeriva altrimenti. Tutti hanno questi momenti in cui l'intelletto va a farsi fottere, riflette, quando le cose diventano irreali, quando il cervello va in corto circuito e crea immagini tutte sue. Il déjà vu rientra in questa sfera, non è così? Alcuni possono semplicemente svenire, mentre altri vedono uscire dai muri elefanti rosa (tra parentesi, quanto aveva bevuto nelle ultime settimane? si chiese).
Sicuro, era rimasto vittima di un'aberrazione mentale (se questo era il termine corretto) per una manciata di minuti. Accidenti, si era alzato prestissimo e non era abituato. Il vecchio apparato non aveva reagito troppo bene, ecco tutto. Niente dì serio o di grave. Un pasto decente, un paio di bicchieri e l'universo si sarebbe riaggiustato.
Continuò a guardarsi alle spalle.
Raggiunto infine il muro di cinta (con un certo sollievo), si servì della scaletta per arrivare fino in cima, quindi, seduto a cavalcioni sui mattoni irregolari, recuperò l'attrezzatura. Sostò un attimo a osservare il cimitero. Quell'istante di contatto visivo con il pazzo era ancora vivido nella sua mente: la sensazione di svuotamento, no, di sabbiatura, seguita da una dolorosa impressione di annullamento era ancora presente, sebbene attutita. Creed rabbrividì prima che il suo stesso scetticismo galoppasse al soccorso come il Settimo cavalleggeri; era stato l'aspetto grottesco di quell'uomo a metterlo in subbuglio, nient'altro. Così tanti segni e rughe che turbinavano sulle sue carni giallastre come vortici registrati su una carta meteorologica, le guance incavate, gli occhi fissi e troppo lucidi (la lucentezza della lussuria?), i fini capelli neri che sembravano incisi nello scalpo invece che sovrapposti a esso: il visitatore di Lily era abbastanza per scuotere chiunque.
Joe si chiese se fosse ancora laggiù, intento a osservarlo. Oppure era rimasto altrettanto sconvolto, sebbene in modo diverso, ed era fuggito? Quello sporcaccione meritava di sentirsi in imbarazzo. Merda, meritava che gli sparassero!
Sollevato un pochino dalla propria indignazione, discese dall'altra parte del muro, lieto di trovarsi fuori del cimitero.
Ripose l'attrezzatura nel bagagliaio della sua Land Rover dei poveri, salì al posto di guida, accese l'ennesima sigaretta e si avviò in città.
Per prima cosa lasciò tre rullini di pellicola presso uno dei pochi quotidiani ancora rimasti nelle vicinanze dell'un tempo nota strada della vergogna, Fleet Street. Per proteggere i non tanto innocenti, chiameremo il giornale The Daily Dispatch. Creed non era un fotografo fisso, bensì un collaboratore, il che tuttavia significava che le sue foto migliori erano un'esclusiva di questa particolare testata e della sua sorella domenicale (per non tralasciare il supplemento a colori). Due dei rullini consegnati riguardavano l'incarico della sera precedente, mentre il terzo copriva parte di quella stessa mattinata. Dopo una breve chiacchierata con il responsabile dei servizi fotografici, scelse due incarichi per la giornata: il primo all'Old Vic, dove veniva presentata un'ulteriore biografia del defunto Olivier, e l'altro in un locale di Mayfair, dove quella sera la Benson & Hedges avrebbe consegnato gli annuali premi riservati all'industria pubblicitaria. Roba noiosa, ma non si poteva mai sapere: qualcuno avrebbe potuto gettare il discredito su di sé.
Subito dopo passò a trovare il responsabile della pagina dei pettegolezzi, Antony Blythe, un somaro (a sua stimata opinione) calvo e azzimato che trattava la propria squadra di quattro collaboratori con uguali percentuali di feroce disprezzo ed entusiastiche tenerezze. Quella sembrava essere una giornata all'insegna del disprezzo: il membro più giovane della redazione, una ragazza di nome Prunella, aveva smarrito i recenti ritagli della festa di divorzio di un famoso cantante rock, quindi Creed si sentì scarsamente invogliato a trattenersi. Quella mattina non si riteneva all'altezza delle canzonature malevole di Blythe (vedete, i paparazzi in genere venivano considerati da questo specifico scribacchino il peggio del peggio, ma Joe Creed occupava a suo giudizio uno scalino ancora più basso).
Ascoltò per un po' il somaro vessare Prunella, interruppe per dichiarare che la pellicola del funerale di Lily Neverless era al momento in sviluppo, chiese se ci fosse qualche evento speciale da coprire, venne bruscamente invitato ad andare ad annusare il proprio letame, acchiappò un bollettino delle celebrità (foglio che annunciava quali star internazionali sarebbero arrivate in città quella settimana, con tanto di orari di atterraggio e, se possibile, il luogo ove avrebbero soggiornato) e batté in ritirata.
Pranzò in un piccolo ristorante nei pressi, poi tornò alla Suzuki parcheggiata alla bell'e meglio sul marciapiede della stretta viuzza che costeggiava gli uffici del giornale. Sfilata la multa dal tergicristalli e gettatala sul retro della jeep giapponese, si diresse alla Fix Features, un'agenzia fotografica che utilizzava i suoi servizi su base saltuaria. Era da lì che le sue fotografie venivano distribuite nel resto del mondo. Consegnò tre rullini, aiutò un direttore di produzione a contrassegnare le diapositive di una festa durata un intero fine settimana nella tenuta di un importante produttore cinematografico, prelevò pellicole nuove in bianco e nero e a colori (che doveva pagare, sebbene a prezzo di costo) e infine si recò all'Old Vic.
Là trascorse un'ora monotona, condita con vino di quart'ordine e squallide tartine e non certo facilitata da attori, critici ed editori, tutti in preda all'entusiasmo per un libro che sapevano benissimo avrebbe a malapena recuperato il costo dello squallido rinfresco e dell'anticipo sulle vendite versato allo squallido autore. Fotografò una nobildonna, il suo cavaliere, un paio di baronetti e diversi anziani attori di teatro (buffo come nessuno sembrasse ansioso di discutere del funerale di Lily Neverless, quasi portasse sfortuna menzionarlo), ma non ricavò nulla che potesse eccitare un responsabile dei servizi fotografici. Trascurò di ritrarre l'autore, del quale non aveva comunque mai sentito parlare.
Da lì attraversò la città fino al San Lorenzo's, dove rimase seduto al bar davanti a un bicchiere di whisky dopo aver lasciato le macchine fotografiche al guardaroba. Lady D., la principessa preferita di chiunque (guai, però, a chiamarla D. in sua presenza), frequentava spesso il ristorante, ma non quel giorno. Deludentemente, non c'erano VIP, celebrità di rango minore, modelle dalle lunghe gambe o persino bambolette viziate (le amanti dei ricchi) con cui ingannare un po' il tempo. Una giornata maledettamente tetra. Forse la sera sarebbe stata più generosa. (Oh, Creed, se solo avessi saputo!)
Tornò a casa.
Il suo appartamento si trovava in centro, in una stradina lastricata che sembrava senza uscita ma, in effetti, non lo era: sul fondo svoltava ad angolo retto, anche se non lo avresti mai detto osservandola dall'imbocco. A metà il vicolo si diramava in una via realmente cieca: proprio su quell'angolo sorgeva la casa di Creed. Si trattava di un domicilio piuttosto modesto, ma alle attuali quotazioni di mercato il suo prezzo sarebbe stato astronomico. Joe l'aveva acquistato otto anni prima, quando le cifre relative alla città di Londra erano soltanto ridicole, non follemente ridicole. Il pianterreno era occupato in massima parte dal garage, con un piccolo ufficio laterale; una breve scalinata conduceva al primo piano (non esisteva seminterrato), composto da soggiorno, cucina-sala da pranzo, camera da letto e bagno, tutti minuscoli ma, come ogni agente immobiliare avrebbe dichiarato, «confortevoli e razionali». Dalla cucina si snodava una scaletta a chiocciola, dipinta con scarso senso pratico di bianco, che offriva accesso a un attico ristrutturato personalmente da Joe al fine di ricavarne uno studio. Un divano letto e un tavolino da caffè formavano l'unico arredamento, oltre a due basse scaffalature.
Attigua allo studio era la camera oscura, dove, tempo e umore permettendo, Creed sviluppava le proprie pellicole.
Parcheggiò la jeep nel garage, chiuse la saracinesca dall'interno e si diresse nell'ufficio. La segreteria telefonica non aveva registrato messaggi di sorta e, sul tappeto, giaceva unicamente un mucchio di pubblicità. Grin lo stava aspettando in cima alle scale.
«Hai catturato qualcosa oggi?» chiese alla gatta.
Lei si limitò a fissarlo.
«Ti ho avvertita: niente topi, niente pasto.»
Grin si rifiutò di cedere il passo e il suo padrone fu costretto a calpestarla. Non aveva la minima idea di che età avesse la gatta o da dove fosse venuta: tre anni prima, in una fredda mattina d'inverno, si era introdotta nel garage e aveva deciso di rimanere. Il suo mantello era grigio sporco e una delle orecchie mangiata via, mentre intere zone della coda erano prive di pelo. Non risultava piacevole da guardare, ma sembrava sogghignare un sacco, dunque la sua vita non doveva essere stata del tutto sgradevole.
«Devi lavorare per vivere, proprio come il resto di noialtri», le spiegò Creed lasciando cadere a terra la borsa e accendendo il gas sotto la caffettiera. «So che ci sono, e lo sai anche tu.» Aprì un armadietto. «Ti ho addirittura mostrato come sono fatti.» Si chinò a sollevare la trappola e agitò il topo, schiacciato dalla molla, sotto il naso del felino, che avanzò con altezzoso interesse. Annusò il cadaverino e alzò lo sguardo su Joe.
«Pensi sia divertente?» esclamò lui. «Che ne diresti se lo tagliassi a pezzetti e te lo mettessi nella ciotola della pappa?» Estrasse il topo dal meccanismo e lo gettò nella pattumiera. «Forse è ora che investa in un cane.»
Grin saltò sul tavolo e si sedette, osservandolo mentre si preparava il caffè. «Ti offro un'ultima possibilità. Stanotte, quando quei piccoli bastardi sbucheranno a giocare, ti metterai al lavoro. Riceverai una taglia per ogni carcassa che troverò domattina, d'accordo?»
La gatta sogghignò.
«È la tua carriera, amica», la avvertì Creed nel salire la scala a chiocciola con la borsa in una mano e la tazza del caffè nell'altra. Presa con sé la macchina fotografica ancora carica, entrò nella camera oscura, accendendo la luce e chiudendo la porta. Prima di spegnere nuovamente l'interruttore, controllò la temperatura dei reagenti chimici, quindi, nella totale oscurità, aprì la Nikon e ne estrasse il rullino.
Benché diverse inquadrature fossero rimaste inutilizzate, era curioso di sapere che cosa aveva scattato quella mattina. Normalmente avrebbe consegnato la pellicola al giornale o all'agenzia, facendosi realizzare stampe extra o tenendo per sé i negativi, ma di tanto in tanto preferiva sviluppare personalmente, di solito quando non c'era fretta o desiderava archiviare nel proprio ufficio qualcosa in particolare. In quello specifico caso, inoltre, nessuno avrebbe usato le ultime foto relative al funerale, soprattutto se lui avesse spiegato a che cosa si fosse esattamente dedicato l'uomo inginocchiato davanti alla tomba.
Fra le sue mani, il rotolo di pellicola risultò scivoloso.
Joe rammentò quegli occhi pallidi e penetranti che lo fissavano. Davvero erano chiari? Al momento non lo aveva notato. Né si era accorto della miriade di venuzze rosse che facevano apparire il bulbo oculare come porcellana striata di sangue. In che modo avrebbe potuto rendersene conto? La distanza fra loro due era stata troppo grande, persino con lo zoom della Nikon. Era solo frutto della sua immaginazione, la sua mente si era surriscaldata. Quel maledetto pervertito lo aveva spaventato!
La pellicola cominciò a srotolarsi nelle sue dita.
«Merda», borbottò, armeggiando al buio per trattenerla. La striscia sfuggì alla sua presa come un'anguilla lubrificata e Creed riuscì a controllare la fuga soltanto rinchiudendola in entrambe le mani.
«Non avrebbe dovuto succedere», si disse futilmente. Le pellicole non si srotolano da sole. Un momento, un momento — si era sbagliato. Era scivolata oltre il bordo del banco e il suo stesso peso aveva fatto il resto.
Cercò a tentoni le forbici, stringendosi la striscia al petto e sperando che l'emulsione non fosse diventata troppo sporca. Tagliata via l'estremità di alimentazione della pellicola, la avvolse a spirale senza ulteriori problemi (benché il materiale gli sembrasse singolarmente morbido), quindi la depose in una vaschetta rotonda. Una volta coperta la bacinella, versò i solventi nel foro apposito e infine accese la luce.
Solo allora si concesse una sorsata di caffè e si accorse che gli tremavano le mani.
Rilassati, si ammonì silenziosamente. Di solito i cimiteri non hanno questo effetto su di te.
Il caffè traboccò dalla tazza quando il telefono della camera oscura si mise a squillare. Prima di afferrare il ricevitore, si passò un palmo bagnato sui jeans.
«Bastardo», esordì una voce femminile all'altro capo della linea.
«Sono io», rispose lui.
«Sai che cos'hai fatto, vero?», riprese la voce. «O meglio, ciò che non hai fatto.»
Joe sospirò. «Spiegamelo tu, Evelyn.»
«Ti sei nuovamente scordato di venirlo a prendere. E questa volta glielo avevi promesso solennemente, stronzo che non sei altro.»
«Oh, no, Evelyn, mi dispiace. Onestamente, me ne sono scordato.»
«Dillo a Samuel. Era ansioso di assistere alla gara, anche se io preferivo che non ci andasse. Le macchine che si sconquassano a vicenda sono esattamente il tipo di passatempo per ragazzi che uno come te lo incoraggerebbe ad apprezzare.»
«Ma lo scopo della competizione è proprio quello di scontrarsi l'un l'altro! Ascolta, se Sammy è lì...»
«È a scuola, dove è giusto che sia a quest'ora, stupido. E si chiama Samuel.»
«Per amor del cielo, ha soltanto dieci anni! Senti, ieri mi hanno affidato un incarico e non potevo rifiutarlo.»
«Questa è la tua versione, e c'è stato un tempo in cui ci avrei creduto. Molto più probabilmente, però, tuo figlio era l'ultimo dei tuoi pensieri. Come va la vita sessuale di questi tempi, Joe? Ti porti sempre a letto delle sgualdrine?»
Mai come quella con cui mi accompagnavo una volta, pensò Creed. «Puoi riferirgli che mi dispiace, Evelyn?» chiese all'ex moglie. «Ci rifaremo il prossimo fine settimana.»
«Niente affatto, dato che ti è stato permesso di tenerlo ogni quindici giorni. Per quanto mi riguarda, è già troppo. Mio Dio, in tribunale avrei potuto raccontare certe storie sul tuo conto...»
«Lo hai fatto, Evelyn. Di' a Sammy di telefonarmi appena torna a casa, vuoi?»
«No.»
«Sei sempre una principessa.» Una principessa ebrea che non avrebbe mai dovuto sposare un gentile.
«E vai a farti fottere.»
«Non certo da te», mormorò lui.
«Cosa?»
«Ho detto va bene, lo chiamerò io.»
«Non desidera parlarti.»
«Scusarsi sarà duro, dunque.»
«Questo è un problema tuo.»
«È sempre una gioia conversare con te, Evelyn.»
La linea fu interrotta.
Creed agitò lo sviluppatore un po' più violentemente del necessario, maledicendosi per aver dimenticato il giorno dedicato al figlio: quel piccolo stronzo avrebbe avuto un'ulteriore scusa per tenergli il broncio. La verità era che aveva partecipato per tutta la domenica alla festa tenuta nella casa di campagna da un magnate dei computer, un uomo d'affari mortalmente grigio che comprava qualche parvenza di fascino per una vita altrimenti risibile con fastosi ricevimenti cui invitava la crema dei mondani. Paparazzi e cronisti specializzati in pettegolezzi rappresentavano le appendici naturali di simili celebrazioni, dato che il genio dell'elettronica voleva far sapere a tutto il mondo di non essere soltanto un cervellone, ma anche un amante del divertimento. La bella gente, che prosperava sullo scrocco, nascondeva senza difficoltà la propria convinzione che lui fosse un melenso, tedioso e pieno di sussiego, mentre il resto dell'universo non era poi così interessato. Cionondimeno, le sue euforie riempivano qualche centimetro di giornale e i fotografi usavano anche più spazio, quindi il reciproco parassitismo risultava proficuo per entrambi. Non una gran ragione per perdere una giornata con il proprio figlio, riflette Joe, ma meglio che affrontare la sua riluttanza.
Quando squillò il timer, vuotò la bacinella e procedette alle operazioni di fissaggio. Fece un paio di telefonate, quindi appese ad asciugare la striscia di negativo mentre consultava l'agenda di lavoro sul divano della stanza accanto.
Sbadigliò più di una volta, non solo a causa dell'elenco di impegni che lo attendevano quella settimana, ma soprattutto per il precoce risveglio della mattina. Creed amava ritenersi una creatura notturna.
Nel giro di qualche minuto, la creatura notturna si appisolò.
Qualcuno si stava sporgendo su di lui, inchiodandolo al divano.
Poteva sentire il terribile, fetido odore del suo alito e il calore del suo corpo.
Nel sonno, ebbe paura; nello stadio che precede la veglia fu addirittura terrorizzato. Ma quell'entità, quell'immenso peso sul suo petto, non voleva che lui aprisse gli occhi, lo desiderava cieco e privo di ogni difesa.
Creed lottò, non con il peso, bensì con la propria forza di volontà. Doveva vedere, doveva affrontare chiunque lo trattenesse lì. Le sue palpebre sembravano saracinesche di piombo.
Respirare non era facile perché il movimento della cassa toracica era ostacolato da quella pressione, che intendeva sottometterlo.
Doveva reagire, smettere di dormire, svegliarsi, aprire gli occhi.
Sollevò le palpebre.
«Vattene via!»
Joe si girò drizzando il busto e Grin saettò attraverso la stanza, aggrappandosi con gli artigli all'unico tappeto che scivolò assieme a lei sulle assi di legno lucidato.
Messosi a sedere, lui scagliò un cuscino in direzione dell'animale, che miagolò e si precipitò verso le scale.
«Gesù Cristo!» sbraitò Creed. «Avresti potuto farmi venire un infarto!»
Si massaggiò il petto per incoraggiare le pulsazioni cardiache. Ci vollero due minuti buoni prima che i suoi nervi si calmassero.
«Oh...» Controllò l'orologio, ricordandosi i negativi ad asciugare. Aveva dormito venti minuti come minimo.
Si diresse nella camera oscura per dedicarsi alla pellicola. «Asciutta come la tetta di una cavalletta», mormorò fra sé, sbadigliando nel contempo.
Dopo aver tagliato i negativi in sei strisce e provveduto a contrassegnarle con un rapidograf, chiuse la porta e accese la luce rossastra. Sbadigliando nuovamente, si concentrò sulle ultime fasi dell'operazione.
Infine esaminò in controluce il risultato: si vedeva la figura inginocchiata con le spalle alla macchina fotografica e una macchia bianca che era la testa girata dell'uomo misterioso. Niente di più. Perché, allora, tanta fascinazione? Come mai un simile interesse per quel lunatico? Istinto, si rispose, anni trascorsi a fiutare e inseguire la pista. Questo episodio celava dell'altro e lui era curioso di scoprire che cosa.
Fece scivolare la carta fotografica nel liquido per lo sviluppo e nel giro di pochi secondi cominciarono a comparire le prime forme.
Il folle si delineò come se emergesse dalla nebbia: le suole delle scarpe rivolte all'obiettivo, l'impermeabile dalle pieghe ritratte nel minimo dettaglio, la leggera torsione del busto. Attorno a lui, erba (statica e tinta d'arancione dalla luce della camera oscura), lapidi e alberi in distanza. Le sue braccia, tenute in avanti, erano nascoste alla vista, mentre la testa, girata di profilo, mostrava le rughe e i solchi come se fossero stati meticolosamente dipinti con un pennello.
Fissando quel viso, Creed rimase a bocca aperta.
Rammentava bene gli occhi dello sconosciuto, così chiari e penetranti. Così maledettamente agghiaccianti.
Ma sulla foto non c'erano.
Si chinò in avanti incredulo. Dove avrebbero dovuto trovarsi gli occhi del pazzo, si vedeva solo oscurità.
Solo due chiazze nere. Che rapidamente si allargarono, collegandosi fra loro. Affrettandosi a cancellare l'intera faccia devastata.
4
e rano o non erano i più all'avanguardia dell'avanguardia, i più yuppie degli yuppie? Gli uomini nei loro abiti casual, i capelli lucidi pettinati all'indietro, alcuni con piccole code di cavallo, i colletti delle camicie abbottonati, ma privi di cravatta. Le donne, soprattutto in nero, con gonne cortissime e strette sino ai limiti di sopportazione, oppure con pantaloni flosci che sarebbero risultati comodi per un ippopotamo. Il mormorio della conversazione era sommesso, distaccato e trasudante ego.
Creed scese gli scalini per immergersi nella piscina schiumante di piranha della pubblicità, esaminando i visi in cerca di chiunque fosse meritevole di una foto, un Saatchi o due, qualsiasi personaggio si elevasse al di là del mondo della promozione del ciarpame, qualcuno la cui posizione o vita privata tormentata potesse suscitare l'interesse dei lettori. Un adolescente alto e pallido con i capelli irrigiditi dal gel adocchiò la sua macchina fotografica e si impietrì, lo sguardo pieno di aspettative dietro gli occhialini rotondi. Lui lo oltrepassò senza ricambiare il goffo cenno di saluto. Il ragazzo, i cui vestiti apparivano altrettanto sformati, ma non costosi quanto quelli indossati dai professionisti che lo circondavano, era senza dubbio uno studente in lizza per uno dei premi che la Benson & Hedges assegnava annualmente al settore pubblicitario per dimostrare di occuparsi di estetica commerciale oltre che di cancro ai polmoni. Creed riuscì quasi a sentire le speranze dell'adolescente afflosciarsi nel venire ignorato dalla macchina fotografica.
Joe prelevò un bicchiere di vino bianco da un vassoio di passaggio e proseguì nella mischia finché non raggiunse un angolo deserto (gli angoli non si addicono ai pubblicitari), dove depose a terra la borsa. Sorseggiando il vino, la Nikon orgogliosamente protesa all'altezza dell'ombelico come un fallo mozzato e fuori posto, esaminò la folla con maggiore agio. Individuò un jazzista che ostentava il suo abituale doppiopetto gessato con cappello di feltro e pregò che l'anziano musicista si trovasse lì per distribuire i premi e non per suonare: la giornata era stata troppo lunga per un culmine simile. Notò altri visi familiari, ma non uno solo che meritasse una foto in bianco e nero, per non parlare del colore. All'altro capo della sala, due schermi televisivi sopraelevati mostravano una selezione di spot pubblicitari, illustrazioni e diapositive. A lui parvero tutti molto di classe e alquanto costosi, a parte quelli realizzati dagli studenti. Quanti, però, avrebbero davvero venduto i prodotti che reclamizzavano? E, comunque, chi se ne fregava? Enormi stanziamenti e scenari grandiosi sembravano essere all'ordine del giorno; la successiva agenzia del copywriter e dell'alt director era ciò che contava, non il prodotto. Persino i clienti, che pagavano per tutta quell'ostentazione, non parevano badare al risultato di contribuire agli avanzamenti di carriera dei vari gruppi creativi (del resto era tutto deducibile dalle tasse, vero?).
«Un magnifico lavoro, non è così?»
La voce era morbida e amichevole.
Joe si girò verso la ragazza e si esibì nel suo sorriso alla Mickey Rourke. «Stupendo», rispose.
La sconosciuta era alta quanto lui e si avvicinava molto all'essere bellissima: una compagna ideale per qualsiasi eroe. Forse un po' troppo attraente per Creed, tuttavia.
«Lei è Joe Creed, vero?»
Lui assentì. «Non ci conosciamo, credo.»
«No, ma l'ho notata altre volte.»
«E non vedevi l'ora di presentarti.»
Lei non aveva ancora sorriso, né lo fece allora. «Non riuscivo più a trattenermi. Addio.»
Non appena la ragazza si girò per andarsene, Creed si scostò dalla parete dove era rimasto addossato. «Ehi, aspetta! Possiamo ricominciare daccapo?»
Lei si fermò. «Sarebbe un miglioramento?»
«Potrebbe forse essere peggio?»
Sulle sue labbra apparve infine un'ombra di sorriso. «Ero venuta da lei perché mi sembrava terribilmente annoiato.»
«Era tanto evidente?»
«Non fa parte di questo scenario. Non deve lasciarsi sviare da quanto vede qui attorno. La maggior parte di queste persone possiede un incredibile talento, e tutti lavorano sodo e in fretta in un ambiente che rappresenta il massimo della competitivita.»
«Non potrebbe darsi che anche tu faccia parte di questo mondo?»
Lei rise. «Colpevole. Ma non ho bisogno di difendere me stessa o loro.» Fece un cenno con il capo verso la folla alle proprie spalle.
«Come mai conosci il mio nome?»
«L'ho chiesto a un membro dell'organizzazione prima di avvicinarla. Ha una certa reputazione, a quanto ho capito, e dubbia per di più.»
Lui parve genuinamente addolorato.
«Le sto impedendo di lavorare?» domandò lei, facendosi velocemente da parte come scusandosi di bloccargli la visuale.
«Stai scherzando? A meno che al vecchio jazzista non venga un colpo, non c'è nulla che possa ravvivare la situazione. Vuoi qualcosa da bere? Mi dici il tuo nome?»
«Nell'ordine, niente bibita e mi chiamo Cally.»
«Il diminutivo di...?»
«Non è un diminutivo. Proprio Cally.»
«Ah.»
Creed finse di esaminare nuovamente la sala ma, quando anche lei si guardò attorno quasi intendesse aiutarlo a trovare qualcuno da fotografare, prese a osservarla furtivamente.
La ragazza se ne accorse, ma finse il contrario. «Mi sto domandando se posso chiederle un favore.»
Era deludente accorgersi che lei non lo aveva avvicinato per il suo carisma o perché davvero voleva distoglierlo dalla noia. «Il mio corpo è sacro», si affrettò a replicare per timore che Cally notasse il suo disappunto.
«Ed è anche assolutamente al sicuro. Il favore non è esattamente per me, bensì per un mio amico. Il mio capo, in effetti.»
Joe aveva già perso ogni interesse.
La ragazza attese pazientemente una risposta.
«Lavoro per una compagnia di produzione», spiegò infine, rendendosi conto che lui non avrebbe aperto bocca. «La Page Lidtrap. Realizziamo spot pubblicitari per la televisione e il cinema, filmati promozionali per grandi aziende, documentari commerciali e così via.» Fu consapevole di non aver attirato la sua attenzione. «In questo momento stiamo montando il nostro primo lungometraggio. Per noi è un passo molto importante.»
«Altre compagnie sono ben più avanti di voi.»
«Vorremmo metterci al passo con loro.» Non le piacque la derisione nel suo sguardo, ma insisté. «In sostanza, abbiamo bisogno dell'attenzione della stampa. Abbiamo ottenuto un certo appoggio finanziario, ma ce ne serve ancora, e lei sa quanto la notorietà giovi a raggiungere questo scopo.»
«No, lo ignoro. Non si tratta del mio campo.»
«In tal caso, mi prenda in parola. Apre decisamente parecchie porte, anche se in breve te le chiudono nuovamente in faccia.»
Se non fosse stata così bella, Joe le avrebbe detto subito di andarsene; il suo corpo, però, era allettante e il suo viso gli appariva di minuto in minuto più attraente. Gli piacevano anche i suoi capelli biondo cenere, di media lunghezza e pettinati all'indietro. «Pensi che io possa renderti famosa?»
«Non me. Il nostro direttore, Daniel Lidtrap. E il punto non è renderlo famoso, so che non è possibile. Se però il suo viso cominciasse a comparire su riviste e giornali, beh, ciò contribuirebbe a facilitare le cose.»
Non si trattava di una richiesta insolita, proprio per niente. La maggior parte delle celebrità o pseudocelebrità si spingevano molto in là, supplicavano persino, per vedere pubblicati il loro nome e fotografie; solo quando raggiungevano la fama cominciavano a fingere altrimenti. Joe non conosceva praticamente nessun grosso nome che, segretamente o apertamente, non amasse, addirittura non bramasse, la pubblica attenzione: la pubblicità era come una droga e non esisteva nulla che la gente famosa detestasse più di una crisi di astinenza. Anche per quanto riguardava gli scandali, molte cosiddette relazioni «clandestine» venivano condotte nei ristoranti e nei locali notturni più popolari, lasciando che fossero i parapazzi e gli esperti in pettegolezzi ad assumersi la colpa per la rivelazione. Ciò che quella ragazza ovviamente non aveva capito era il fatto che lui, Creed, non esercitava la minima influenza su quanto veniva pubblicato. Un fotografo si limitava semplicemente a fornire il materiale, ma erano il giornalista e il direttore a decidere che cosa utilizzare. La circostanza che questo tizio (come si chiama? Traplid?), poi, fosse un perfetto sconosciuto agli occhi del mondo intero significava che non aveva una sola speranza di costituire l'oggetto di un articolo.
Sorrise con calore. «Ecco, forse potrei fare qualcosa...»
Il viso della ragazza si illuminò e lui si accorse che aveva i denti davanti leggermente storti, una lieve pecca che stranamente aumentava il suo fascino. Se ci avesse pensato meglio, si sarebbe reso conto che proprio quella piccola imperfezione la rendeva in qualche modo più accessibile, mantenendo la sua bellezza entro termini realistici, conferendole un'aria più naturale, meno sublimemente classica.
«Un favore in cambio di un favore, però», aggiunse.
Lei assunse un'espressione guardinga, ma senza smettere di sorridere.
«Andremo a cena insieme e pagherai tu.»
«Daniel è laggiù.» Cally indicò un punto sotto uno dei due schermi televisivi. «Quello alto e ricciuto accanto all'uomo con la barba.»
Creed lo detestò a prima vista. Era troppo bello: i suoi abiti erano senza dubbio di Armani o di qualsiasi stilista fosse alla moda in quel periodo e i suoi ricci «naturali» erano stati persuasi a sfiorargli appena le orecchie per ricadere elegantemente attorno al colletto della camicia. Lui e Cally formavano la coppia perfetta e Joe si pose qualche interrogativo.
«Stasera, un suo spot è in lizza per un premio», spiegò lei.
Chi lo avrebbe mai detto, pensò Creed, per nulla colpito. «Gli scatterò una foto prima di andarmene», promise alla ragazza, «ma dovrai fare in modo che si sposti in luoghi più interessanti di questo. Possiamo discuterne a cena.»
Lei esitò solo un attimo. «Sarebbe fantastico, ma non stasera. Abbiamo già stabilito di andare in un ristorante dopo la consegna dei premi.»
«D'accordo. Senti, questo è il mio numero.» Estrasse dalla borsa un malconcio biglietto da visita e glielo porse. «Chiamami quando hai un attimo di tempo, va bene?»
«Non so come...»
L'abituale sorriso di Joe non era molto diverso da un sogghigno, quindi la ragazza rimase sconcertata. Lui fu abbastanza astuto da non manifestare una reazione ovvia. «Non ti preoccupare», si limitò a concludere.
Lei tenne il cartoncino come fosse un biglietto vincente. «Le telefonerò.»
Quindi si fece strada tra la folla che era diventata compatta, mentre il flusso dei nuovi arrivati continuava senza sosta.
Una possibilità, si disse lui, osservandola scomparire. Decisamente una possibilità.
Creed percorse il lungo bar di Langan's in tutta la sua estensione finché non fu fuori vista rispetto alla sala ristorante; a una sua strizzata d'occhio, uno dei baristi lo seguì.
A uno sguardo ignaro, il paparazzo sarebbe potuto apparire come uno dei proprietari del locale (nonostante il suo aspetto trasandato), dato che aveva lasciato la borsa con le macchine fotografiche nella jeep parcheggiata all'esterno. Si appoggiò al banco e parlò a bassa voce. «E arrivato?»
«Venti minuti fa», confermò il barista. «È ancora al primo piatto.»
«Anjelica è con lui?»
«Non ne sono sicuro.»
«Cosa vuoi dire? O c'è o non c'è.»
«In effetti è in compagnia di una signora, che però mi è sembrata diversa. Forse ha soltanto cambiato pettinatura, non so.» L'uomo scrollò le spalle.
Joe si guardò attorno, tamburellando pensieroso sul banco. «Qualcun altro con loro?»
Il suo informatore scosse il capo. «Nessuno di importante. Ti servo qualcosa?»
«Un caffè e un whisky.»
«Liscio?»
«Certo, e senza ghiaccio. Ho avuto freddo tutto il giorno.»
La chiamata lo aveva raggiunto mentre ancora si trovava alla premiazione: informava sempre il giornale di tutti i suoi spostamenti. A quanto pareva, Jack Nicholson era arrivato in città e aveva prenotato un tavolo per cinque da Langan's.
Lui aveva sprecato qualche minuto ancora per scattare un paio di foto al casco ricciuto del capo di Cally; perlomeno, la ragazza gli era sembrata molto riconoscente, per cui quel moderato sforzo avrebbe forse reso qualche dividendo in seguito. Traplid o Pratlid era parso adeguatamente tediato per l'intrusione, ma Creed aveva notato che il regista si era affrettato a offrire all'obiettivo il proprio profilo preferito, la mascella tesa per fare apparire il mento ancora più volitivo.
Con la gola ravvivata dal whisky, Joe meditò un piano d'azione. Era fondamentale scoprire se l'accompagnatrice di Nicholson era davvero Anjelica Houston. Da anni, quei due avevano una relazione discontinua, ma a quanto pareva, John Houston, il celeberrimo regista padre dell'attrice, aveva fatto promettere in punto di morte a Nicholson che avrebbe finalmente reso la figlia una donna onesta (la storia era falsa, fra parentesi, ma si trattava del genere di leggenda che la stampa amava promuovere). Di conseguenza, la coppia si era lasciata alle spalle l'ennesima, tempestosa rottura per rimettersi nuovamente in riga.
Quindi, la foto era questa: i due dovevano essere ripresi assieme, un'unità ricostituita. La prova evidente della vicinanza fisica avrebbe aiutato il cronista ad avvalorare la storia. Per chiunque non appartenesse alla categoria, il collegamento sarebbe risultato alquanto tenue, ma per un giornalista o un paparazzo avrebbe rappresentato una dimostrazione solida come la roccia.
Sfortunatamente Nicholson era un «diavolo», oltre che un burlone multimiliardario, e si divertiva a prendersi gioco della stampa. L'unico momento vulnerabile si sarebbe verificato all'uscita della coppia dal ristorante; una volta all'esterno, Joe era certo che si sarebbero immediatamente separati, giusto per scherzare un po' alle spalle dei fotografi.
Proprio in quel momento lui si accorse che due pezzi grossi della concorrenza, Richard Young e David Bennett, erano seduti a un tavolino da dove potevano osservare la zona ristorante senza che la loro presenza venisse notata.
Creed gemette fra sé: la notizia si era diffusa. Ben presto altri paparazzi, i paria cui non era consentito mettere piede nel locale, si sarebbero radunati come poiane sul marciapiede. Merda!
Per peggiorare le cose, Bluto aveva appena fatto la propria comparsa.
Se nell'ambiente erano in molti a non provare troppa simpatia per Joe, di sicuro tutti detestavano Bluto.
Perennemente vestito di nero, costui non era alto, ma molto, molto grosso. Il mento incassato in un collo taurino e irsuto, il naso rincagnato, la fronte alta un centimetro (o almeno così sembrava), i capelli cortissimi e ispidi, assomigliava al vecchio avversario di Braccio di Ferro (benché il suo vocabolario fosse meno esteso di quello del cartone animato): di qui il nomignolo. Sembrava un lottatore giapponese di sumo e il suo vero nome era assolutamente impronunciabile.
Si accorse della presenza di Creed e gli lanciò un'occhiata incendiaria. Loro due si erano scontrati in troppe occasioni perché potesse sussistere un barlume di civiltà nei reciproci rapporti. Joe sollevò il bicchiere in direzione del rivale e ci volle un'abilità non certo alla portata di tutti per farlo apparire un gesto di disprezzo invece che di saluto.
Bluto svanì dietro una porta e l'ambiente si ravvivò considerevolmente.
Mentre le due star e i loro accompagnatori si godevano la cena, il nostro eroe avrebbe di norma avuto tutto il tempo di passare in rassegna gli incarichi del giorno successivo, ma quella sera meditò sugli eventi del pomeriggio: in particolare, sull'oscuramento dell'immagine appena sviluppata. Per quanti sforzi avesse compiuto, non era stato in grado di bloccare quella strana ombra in espansione; ogni volta, gli era rimasto fra le mani un riquadro di carta completamente nero. Si trattava di un fatto inspiegabile. E maledettamente irritante.
Solo quando aveva provato con un altro negativo era riuscito a ottenere il risultato desiderato.
Dopo averne sperimentati altri tre con ottimi esiti, era tornato al primo e, come prima, la macchia si era dimostrata incontenibile: si era estesa come una chiazza d'inchiostro finché non aveva raggiunto i bordi della carta.
Solo allora lui si era reso conto di una circostanza del tutto assurda, ma in qualche modo rilevante: la foto che sembrava impossibile stampare correttamente era quella in cui il soggetto guardava direttamente nell'obiettivo. Quella scattata nel preciso momento in cui la sua copertura era saltata.
Poteva avere un senso? Naturalmente no.
E allora cosa diavolo stava capitando?
«Sono arrivati al caffè.»
Sorpreso, Joe sollevò lo sguardo.
«Sono al caffè», ripeté il barista, per poi allontanarsi subito con aria indaffarata anche se non stava facendo niente di particolare.
Il cervello di Creed tornò immediatamente al lavoro. Si alzò dallo sgabello, notando che i suoi due colleghi (forse rivali era un termine più adatto ai rapporti esistenti all'interno della categoria) se n'erano già andati. Benché sembrasse piuttosto casuale, i muscoli del suo stomaco stavano iniziando a contrarsi. A prescindere dal numero di anni trascorsi sulla piazza, ogni paparazzo cambiava marcia con l'avvicinarsi del grande momento: era troppo semplice sbagliare, vedete, troppo facile lasciarsi sfuggire l'attimo. E se ti accadeva, ciò significava che tutta l'attesa era stata inutile, tutta la programmazione andava a farsi benedire. Come se non bastasse, inoltre, un'opportunità mancata non giovava certo alla stima in se stessi.
Nel medesimo tempo, questa tensione era innegabilmente inebriante, perché l'adrenalina cominciava a pompare e le terminazioni nervose a vibrare: tutto il corpo si preparava.
A quel punto, esperti e inesperti, vecchie volpi e giovani leoni, diventavano nervosi, anche se non se lo sarebbero mai confessati l'un l'altro. Ognuno pregava per uno scatto significativo e perché la macchina fotografica fosse carica (pensate forse che questo non capiti mai ai professionisti?).
Joe ispezionò rapidamente l'enorme sala: Nicholson era chiaramente riconoscibile e, di fronte a lui, sedeva la sua compagna, Anjelica. I capelli apparivano diversi, più rossicci che bruni, ma quel bel viso era inconfondibile.
Sempre più teso, il nostro eroe uscì nella notte. Una folla di fotografi era radunata sul marciapiede, intenta a chiacchierare. Lui si diresse immediatamente alla Suzuki, si mise al collo entrambe le Nikon e raggiunse gli altri.
In disparte, Bluto si celava in un androne buio.
Creed fu salutato senza troppo entusiasmo dal branco. Quei ragazzi (per lui, chiunque non avesse oltrepassato la trentina) non avrebbero capito che la foto doveva necessariamente ritrarre Nicholson e Anjelica assieme, preferibilmente a braccetto; quasi tutti si sarebbero affannati a scattare non appena la prima persona del gruppo dei divi si fosse affacciata sulla strada. Per Joe era importante trovarsi davanti a quell'orda, senza che braccia, spalle o teste gli bloccassero la visuale. Dopo un breve scambio di battute, si allontanò a passo lento, tenendo un occhio sul ristorante.
Appoggiato alla sua Porsche rossa, Bennett stava parlando a bassa voce con Young. Loro due avevano afferrato perfettamente il punto, e si erano premurati di posizionarsi in prima fila.
Ci vollero ancora venti minuti buoni prima che i paparazzi cominciassero ad agitarsi e a sciamare in avanti, sovreccitati e vocianti, con un unico obiettivo in testa: conservare gli attimi successivi per i posteri (o, per essere meno romantici, guadagnare il prossimo assegno). Creed, però, li aveva preceduti di gran lunga — beh, di un pochino.
Essendosi sistemato su un angolo che gli consentiva una perfetta visuale delle finestre del ristorante, aveva scorto il divo che si alzava da tavola. Ciononostante, aveva atteso fino all'ultimo minuto prima di avviarsi verso l'ingresso (muoversi troppo presto avrebbe messo sull'avviso gli altri) e fermarsi a pochi metri dalla porta, con la Nikon già sollevata e il dito sull'otturatore.
Mentre il branco in subbuglio lo urtava alle spalle, il battente si aprì e ne emerse qualcuno.
Una non-faccia. Un individuo anonimo, che però fungeva da accompagnatore alla diva. Anjelica non era con Nicholson!
Lo sconosciuto la prese per un braccio e la guidò verso un'auto parcheggiata a breve distanza; entrambi furono tallonati lungo la strada, gli scatti dei flash che risuonavano in una cacofonia singolarmente smorzata. Solo allora Jack Nicholson comparve sulla soglia, esibendosi nel suo caratteristico sogghigno.
Bastardo! Lo aveva fatto apposta! Aveva mandato avanti la sua compagna da sola!
«Prendetevela calma, ragazzi», cantilenò, mostrando i denti.
La sua presenza scatenò il parossismo dei paparazzi. I lampi bianchi si fecero quasi continui e le grida «Qui, Jack, da questa parte, Jack, un altro sorriso, Jack» formarono una stridula litania. I «ragazzi» stavano rivendicando il loro scalpo.
Tutti tranne uno, in effetti. Joe Creed era finito scompostamente con la faccia sul marciapiede.
Qualcuno (e lui sapeva perfettamente chi) gli aveva vibrato una potente gomitata alla testa nel momento esatto in cui l'attore era apparso.
Sputando oscenità, si girò in piedi a fatica mentre la calca seguiva Nicholson e aggirò due macchine parcheggiate, intuendo le intenzioni del divo. Questi, infatti, scese all'improvviso dal marciapiede e, fra lo stupore generale, attraversò velocemente la strada.
Dato che sull'altro lato non c'erano automobili in attesa, i fotografi non riuscirono a capire che cosa avesse in mente. Cionondimeno, quel cambio di direzione consentì a Creed di scattare con il massimo agio, senza venire ostacolato dalla concorrenza.
Il branco si precipitò sulla scia dell'attore, ma Joe rimase indietro: aveva già assistito a quel trucco di Nicholson qualche anno prima.
Un motore si accese in fondo alla via e una Ford Scorpio avanzò sull'asfalto. Il nostro eroe si fece da parte mentre dal sedile del passeggero qualcuno si sporgeva e, con una certa difficoltà, apriva la portiera posteriore.
Di colpo, la star cinematografica saettò verso il veicolo in lento movimento.
Creed ritrasse Nicholson in corsa, poi mentre si tuffava sul sedile posteriore. Si era trattato di una splendida manovra che aveva lasciato i fotografi a bocca aperta.
La Scorpio partì a tutta velocità. Trascorsero alcuni secondi prima che il gruppo, ipnotizzato, si sparpagliasse in direzione dei vari mezzi di trasporto. .
Lo scopo dell'operazione era stato quello di impedire ai paparazzi l'inseguimento, con conseguente scoperta dell'albergo in cui i due attori alloggiavano. A quanto pareva, il trucco aveva funzionato.
Normalmente Joe avrebbe accettato la sfida: se anche avesse perso la Scorpio, si sarebbe aggirato fra gli hotel di lusso nella speranza di scorgere l'auto parcheggiata all'esterno o nei pressi. Quella sera, però, ne ebbe abbastanza; la giornata era stata lunga e rimanevano altre cose da fare prima di potersi mettere a letto. Forse stava diventando vecchio, oppure l'eccitazione iniziava a svanire. O magari non gliene fregava niente.
Consegnò la pellicola al laboratorio di sviluppo del Dispatch e dichiarò cessata ogni attività.
Beh, questo era quanto pensava lui.
5
c reed abbracciò più strettamente il cuscino, in un sonno agitato, premendo il viso contro la superficie morbida. Un bambino si sarebbe comportato nello stesso modo con un orsacchiotto o una bambola, ma, nel suo caso, il cuscino rappresentava un sostituto alla carne soffice di una donna. Occasionalmente non disdegnava dormire da solo (e, di recente, non aveva avuto molta scelta), tuttavia preferiva decisamente il calore di un corpo femminile accanto a sé. Borbottò qualcosa che di certo riguardava il sogno in cui era ancora parzialmente immerso, quindi si girò senza abbandonare il cuscino.
Aprì gli occhi.
La luce di un lampione penetrava dalla finestra, fioca e sicuramente non sufficiente a delineare con precisione gli oggetti nella stanza. La sedia su cui aveva gettato l'impermeabile assomigliava a una delle lapidi tra le quali si era aggirato così di recente. La vestaglia blu appesa al battente aperto sarebbe potuta essere una figura che lo osservava. L'alto guardaroba in un angolo gli parve l'entrata di un mausoleo funebre. Gli ornamenti del...
Sbatté rapidamente le palpebre.
La sua vestaglia era sopra la trapunta in fondo al letto (nelle notti invernali, in assenza di un altro corpo cui rubare calore, aveva freddo ai piedi). Giacque sulla schiena e fissò la porta senza muovere la testa.
Si era sbagliato: sulla soglia non c'era assolutamente nulla.
Mosse infine il capo e si accigliò nell'oscurità. Eppure gli era parso che ci fosse... Idiota! Ovviamente si trovava ancora sotto l'influsso del sogno e un'immagine si era attardata nella sua mente. Proprio quello di cui sentiva il bisogno, una fottutissima notte inquieta. Il suo cervello si rifiutava di calmarsi, ecco il problema. Forse una sigaretta avrebbe tranquillizzato la vecchia baracca. No, troppa fatica andare a prenderne una. Bisognava riposare, domani sarebbe stata una giornata faticosa. Contare le pecore? Meglio una respirazione profonda. Uno, due, tre.
Sbadigliò al quarto respiro, rovinando il ritmo. Ricominciare daccapo.
Dopo cinque secondi, un rumore gli bloccò l'aria a metà della gola.
Che cos'era stato? Da dove cazzo proveniva?
Fissò il soffitto. Grin che gironzolava per la casa. Doveva essere così. I gatti erano vagabondi nati. Grin, però, era troppo pigra anche per quello: raramente si svegliava quando lui rientrava alle due o alle tre del mattino. Tuttavia, quella notte avrebbe potuto rappresentare un'eccezione. E se fosse stata a caccia di topi, che Dio ci aiuti? Forse quella gatta aveva più buonsenso di quanto non gliene avesse attribuito e stava sul serio seguendo il suo avvertimento. Non deludermi, Grin, acchiappa quei piccoli rompiscatole. È meglio dell'esilio.
Il rumore successivo, tuttavia, era troppo forte per essere stato causato dalle zampe vellutate di un gatto. Sembrava un passo.
Seguito da un altro.
Creed si irrigidì. Porco Giuda, qualcuno era entrato in casa. Inghiottì a vuoto, teso nell'ascolto. Nulla.
Forse le vecchie travi di legno del pavimento avevano scricchiolato. Ma certo, certo, ecco la spiegazione.
Questo, però, era un suono del tutto diverso!
«Oh, Cristo», bisbigliò lui, sedendosi di scatto con il cuscino stretto fra le braccia. Qualcuno stava frugando al piano di sopra. Ascoltò intento, pregando di non udire altri rumori.
Sfortunatamente non venne esaudito.
Joe gemette fra sé. Che diavolo doveva fare? Salire lassù ad affrontare il ladro? Neanche per sogno. Chiamare la polizia? L'intruso lo avrebbe sentito. E allora? Scappare in tutta fretta, si rispose. Lascia che si prenda ciò che vuole, dopotutto sono soltanto oggetti; carne e ossa sono ben più sacri.
Il nostro eroe si sarebbe comportato esattamente così se non fosse stato per un particolare: i rumori provenivano dal piano superiore, e proprio lì c'era il suo studio. Tutta la sua vita stava racchiusa lassù: archivi, materiale fotografico, attrezzatura, macchine fotografiche. Merda, la sua storia era là! Ciò che aveva raccolto in anni di professione, foto scattate per sé, «residui», provenienti da vari lavori, negativi, provini. Quanto di meglio aveva accumulato in dodici lunghi anni di faticosa carriera. Okay, amico, sei nei guai: nessuno gli avrebbe portato via quella roba. Solo passando sul mio cadavere. Sii serio, Creed! Scorte e attrezzature potevano sempre venire rimpiazzate, mentre nuove fotografie avrebbero sostituito le vecchie. Quel tizio poteva anche essere pericoloso.
Ma la polizia non sosteneva forse che, nella maggior parte dei furti, il ladro era più spaventato della vittima? Con la sua fortuna, gli sarebbe certamente capitato un malvivente temerario.
Solo il fatto incontestabile che c'erano cose estremamente importanti da intraprendere lo convinse infine a scendere dal letto. Prima di sbirciare dalla porta aperta si infilò la vestaglia (niente riesce a farti sentire più vulnerabile della nudità), quindi rimase di nuovo in ascolto con il fiato sospeso, rendendosi conto che ormai da qualche minuto non si udiva alcun rumore.
Poteva darsi, tentò di rassicurare se stesso, che davvero si fosse trattato soltanto dei topi. Ratti, persino. Rabbrividì: sì, era possibile, anzi, probabile. Quei bastardi erano in grado di produrre un baccano d'inferno, e nel cuore della notte ogni suono risultava comunque amplificato. Qualsiasi cosa poteva assomigliare al rumore di passi, una volta che l'immaginazione si scatenava. E i ratti avevano facile accesso tramite le fessure fra le travi di quei vecchi edifici. Non aveva forse letto da qualche parte che i topi si stavano impadronendo della città? Una bella idea per un libro. Ma dov'era Grin? Perché non si trovava lassù a dar loro la caccia?
Al di là del corridoio riusciva a vedere la cucina, ma la cosa non gli era di alcuna utilità. Doveva salire la scala a chiocciola per scacciare i parassiti? Se di questo si trattava, naturalmente.
Ormai il silenzio si protraeva da un po'. E se un intruso stesse aspettando che lui infilasse la testa nel foro rotondo sul pavimento? Tuttavia, esisteva un'alternativa all'esporre il collo, per così dire, e probabilmente avrebbe funzionato in caso di ladri o di topi.
Afferrò la chiave della porta della camera da letto, pronto a chiudersi dentro e a rimanerci a oltranza.
«D'accordo, so che sei lassù. Ho chiamato la polizia e farai meglio ad andartene subito, finché sei in tempo!»
Aveva gridato abbastanza forte da svegliare i morti e il suo stato preisterico non si era notato affatto. Malviventi o ratti avrebbero potuto diventare sfacciati, se si fossero accorti che aveva paura.
Nulla si agitò o fu preso dal panico. Nessuno gli rispose.
Provò ancora. «Hai circa cinque minuti per uscire di qui. La polizia è piuttosto veloce da queste parti. Vattene subito e sarà finita così!»
Niente.
Attese un pochino prima di accendere la luce del corridoio. Cristo, Creed, sei come una zia zitella, si rimproverò, sentendosi un filo più coraggioso con lo svanire del buio. Di sopra non c'era nessuno, proprio nessuno. Si era sbagliato.
Ciononostante penetrò in cucina con considerevole cautela ed estrasse da un cassetto un lungo coltello, nel caso si fosse dimostrato utile. Sostò ai piedi della scala a chiocciola e sbirciò nella cavità oscura sopra la sua testa. Devi controllare, Creed. Se non lo fai, passerai il resto della notte sul chi vive.
Posò il piede sul primo gradino, si fermò, quindi si spinse sul secondo.
Al diavolo! Continuò a salire, i piedi nudi silenziosi, ma non del tutto, gli occhi ben presto al livello del piano superiore. Prese tempo per ispezionare oltre il bordo.
Quando girò lo sguardo tutt'attorno nell'attico, gli parve che il cuore si fosse solidificato in un grumo pesante e glutinoso dentro il petto.
L'interruttore della luce era vicino, ma da quella posizione non gli era possibile raggiungerlo. Non che avesse importanza, dato che esisteva un'altra fonte di illuminazione: il chiarore rossastro della camera oscura giungeva fino a lui.
E laggiù, il cranio calvo simile a un sole al tramonto nella luce rossa, stava una figura contorta. In piedi di profilo rispetto a Joe, intenta a reggere una striscia di pellicola sotto la lampadina con dita straordinariamente lunghe, come artigli. Ma il suo viso terrificante era rivolto al buco da cui emergeva la testa di Creed, quasi si fosse aspettata di vederlo apparire.
Il fotografo non emise alcun suono, ma la sua mente balbettò: Oh, merda, oh, Dio, oh, Cristo!
Un istante dopo stava fuggendo a ritroso, senza perdere tempo a fare dietrofront, scendendo la scala in un turbinio d'arti, aggrappandosi al corrimano per mantenere l'equilibrio, graffiandosi i polpacci contro i gradini di ferro.
Giunto al piano di sotto, si girò e corse in corridoio, praticamente balzando giù per gli scalini che conducevano alla porta d'ingresso.
Sfortunatamente, in quel preciso momento Grin stava procedendo in senso contrario, allo scopo di investigare sul caos prodotto dal padrone. La gatta non era altro che un'ombra nell'oscurità, ma estremamente chiassosa nell'attimo in cui il piede di Creed le atterrò sulla schiena.
Grin emise uno stridulo miagolio e Joe cadde.
Annaspò nel vuoto e lo trovò inconsistente: piombò a capofitto, rotolò su se stesso, poi di nuovo a testa in giù. Il portone alla base delle scale sbatté sui gradini quando lui lo colpì.
Gemendo si girò a faccia in su, mentre la coscienza lo abbandonava rapidamente; con gli occhi semiaperti, guardò verso il corridoio immerso nell'ombra.
Prima di svenire, riuscì a mormorare qualcosa, un inizio di parola.
«Nos...», fu tutto quanto ebbe il tempo di pronunciare. Le sue palpebre si abbassarono come se si stesse addormentando e la sua testa si inclinò di lato. Una mano gli scivolò dal grembo a sfiorare il suolo, le dita che finalmente andavano distendendosi.
6
b uste che gli cadevano addosso furono la prima cosa a disturbarlo. Aprì con difficoltà gli occhi velati e notò che tre delle buste che gli giacevano sul petto erano marroni, del genere che contiene le fatture. Perse nuovamente conoscenza.
Un'ora più tardi (benché lui non fosse per nulla consapevole dell'intervallo di tempo), un bussare alla porta lo riscosse per la seconda volta.
Grugnì, gemette e si mosse a malapena.
I colpi sul battente ripresero, all'unisono con il martellare nella sua testa. Qualcuno stava dandoci dentro con una certa forza. Joe cercò di mettersi a sedere, ma lo sforzo parve far aumentare come non mai la sua emicrania. Tentò di nuovo, con maggiore cautela.
«Signor Creed.»
La fessura per la posta sopra di lui si era aperta come una bocca. La voce era femminile. «Signor Creed?» giunse ancora. Chiunque lo stesse chiamando non si era accorto di quanto lui fosse vicino.
«Va bene...»
«Signor Creed!» Accompagnato da un assordante bussare.
«Va bene, per la...!»
Si sedette, la cima del cranio a pochi centimetri dalla fessura.
La voce si abbassò di colpo. «Signor Creed, è proprio lei?»
Joe tese il collo per guardare all'insù e vide un paio d'occhi che lo fissavano. Anche senza il resto del viso apparivano attoniti.
«Sta bene?» gli venne chiesto. «Sono io, Cally. Ci siamo incontrati ieri sera, ricorda? Che cosa sta facendo lì per terra?»
Lui si sollevò sulle ginocchia e sostò per riposarsi, le nocche delle dita appoggiate al tappeto. «Un minuto», supplicò. «Solo un minuto. Oh, porco Giuda...» Si toccò la fronte e gemette forte, quindi premette il rigonfiamento per vedere se sarebbe calato e si pentì immediatamente di aver tentato.
«Signor Creed...»
«D'accordo, d'accordo!» Anche alzare la voce gli faceva male.
Con un profondo respiro si trascinò in piedi.
Quando socchiuse il battente dopo aver fatto scattare la serratura, il viso della ragazza era pieno di preoccupazione. «Che cosa le è accaduto? Sembra che le stia crescendo una seconda testa.»
Fu in quel momento che tutto gli tornò alla mente. Barcollò per un istante e si sedette velocemente sui gradini alle sue spalle; rimase a fissare nel vuoto, senza accorgersi che la ragazza era entrata, inginocchiandosi di fianco a lui e guardandolo ansiosamente.
«Ha un aspetto terribile», dichiarò. «Vuole che chiami un'ambulanza?»
Assorto nei propri pensieri, Joe non rispose.
«Lasci che le porti qualcosa», la udì affermare, senza capire che cosa lei intendesse. «Dove tiene... non importa.» Lo scavalcò per salire le scale.
Lui continuò a fissare davanti a sé, dimentico della brezza gelida che penetrava dal portone aperto. Ben presto udì un rumore di passi e una gamba rivestita di jeans gli passò al di sopra della spalla.
«Ecco, beva questo.» Cally gli accostò un bicchiere alle labbra e lo inclinò per facilitargli il compito.
Lui tossì convulsamente. «Cosa... ma che... brandy? A quest'ora del mattino?»
«La aiuterà a superare lo choc.»
«Non sono sotto choc.»
«Glielo avevo detto. Coraggio, beva un altro sorso.»
Lui obbedì e dovette ammettere che il liquore serviva a qualcosa.
«Vuole andare all'ospedale?»
Joe scosse la testa e desiderò di non averlo fatto.
Di colpo rabbrividì, non a causa del brandy, ma perché era quasi nudo. Si avvolse rapidamente la vestaglia attorno al corpo.
Cally finse di non essersi accorta di nulla. «È meglio che si trasferisca in un posto più comodo. Crede di avere qualcosa di rotto?»
«Sì, il cranio.»
Con il suo aiuto, Creed si alzò lentamente in piedi ed entrambi iniziarono a salire i gradini. La gatta li attendeva sulla cima.
«Spostati, micio», esclamò Cally. «Dobbiamo passare.» Avrebbe giurato che l'animale stesse sogghignando.
Grin studiò la ragazza, quindi il padrone.
«Tu...» iniziò a inveire lui, ma la durezza del suo stesso tono gli fece dolere ancor più la testa. «È stata lei a farmi inciampare», si lagnò con la sua accompagnatrice.
«Adesso capisco. Mio Dio, pensavo fosse stato aggredito.»
Joe si irrigidì, ricordando nuovamente gli avvenimenti della notte precedente, questa volta più vivamente. «Non è poss...» Lasciò la frase in sospeso.
«Ehi, si calmi! Ora si sieda, mentre le preparo un tè.»
Lo guidò in soggiorno, lo aiutò a sedersi sul divano e si inginocchiò di fronte a lui. «È sicuro di non volere un medico?» Lo osservò attentamente. «È terribilmente pallido.»
Creed aprì la bocca, sul punto di dire qualcosa, ma, dopo un attimo, si alzò a fatica e si precipitò verso la porta, facendo quasi cadere la ragazza. Ripresasi, Cally lo seguì.
Le gambe nude del fotografo stavano scomparendo in cima alla scala a chiocciola della cucina; lei cominciò a salire a sua volta.
Lo raggiunse in una stanzetta, ovviamente una camera oscura, dove stava fissando sgomento il caos.
Materiale fotografico era sparso ovunque: pellicole, strisce di negativi, diapositive. Il pavimento era invaso dai liquidi fuorusciti dalle bacinelle rovesciate; i cassetti di un mobile metallico erano aperti, il loro contenuto a soqquadro, molte cartellette a mollo per terra. Creed, in piedi con aria attonita, continuava a scuotere il capo, come per dire «No, non è vero niente, sto solo sognando»,
«Vado a chiamare la polizia?» domandò la ragazza, sfiorandogli una spalla.
Lui la guardò con espressione incredula, quasi dubitasse anche della sua presenza. «Oh, sì. Sì, telefona alla polizia», dichiarò infine. «Aspetta un attimo, però. Dammi solo un minuto.»
Esaminò nuovamente la stanza, quindi chiuse gli occhi per un istante. «Non mi crederanno», concluse.
«Prego?»
«I poliziotti non crederanno mai a quello che ho visto ieri notte. Mi prenderanno per matto.»
«Ha visto chi è stato?»
Joe annuì lentamente. «Penso di sì, perlomeno. Non può essersi trattato di un sogno, non è vero?»
Ovviamente, lei non aveva una risposta.
«Andiamo dabbasso. Devo pensare.»
Una volta al piano inferiore, Creed si sedette, i gomiti sul tavolo da cucina e le mani sul viso. Cally si affaccendò a preparare il tè.
«Posso chiamare la polizia?» chiese dopo qualche tempo.
Lui sollevò la testa. «Dev'essere stato un incubo. Forse non ho visto nessuno, credo solo di averlo fatto. Colpa del bernoccolo sulla testa, capisci? Può darsi che mi ricordi male.»
«Però non c'è alcun dubbio che qui sia entrato un intruso. A meno che lei stesso non abbia causato tutto quel caos lassù.»
«No, mi riferisco unicamente a ciò che penso di aver visto. Devo averlo immaginato, oppure sognato. Onestamente, non lo so.»
«Mi spieghi che cosa crede di aver visto.»
«Hai una sigaretta?»
Lei scosse il capo.
«Allora portami quella scatoletta, se non ti dispiace.» Puntò il dito verso la credenza.
Cally obbedì e rimase a osservarlo mentre ne estraeva una sigaretta scura arrotolata a mano, poi gli porse i fiammiferi, chiedendosi se non si trattasse di uno spinello. Il primo, sgradevole sbuffo di fumo le dimostrò che era una normale sigaretta.
«Ti piacciono i vecchi film?» Le chiese lui.
«Che cosa?» Reagì sorpresa la ragazza.
«I film molto vecchi, quelli muti, in bianco e nero. Sai di che cosa parlo, vero?»
«Dubito sia molto importante in questo momento. Casa sua è stata devastata e lei è rimasto ferito. Mi racconti piuttosto chi ha causato quel disastro al piano di sopra.»
«È proprio quanto sto cercando di fare.» Espulse il fumo con piccoli colpi di tosse, poi scosse la testa. «Doveva trattarsi di un sogno.»
Lei gli toccò il polso, un accenno di impazienza nella voce. «Me lo dica.»
«Ti interessano i film di vampiri?»
Cally lo fissò a bocca aperta.
Imbarazzato, Joe si schiarì la gola prima di proseguire. «Io ho sempre preferito il primo. Credo sia stato realizzato agli inizi degli anni Venti. Il... ecco, la persona in cui mi sono imbattuto ieri notte...»
Tacque di colpo, e la stanza rimase immersa in un'immobilità totale.
«Oh, merda!» Riprese dopo un attimo, come se avesse raggiunto una decisione. «Ho visto Nosferatu.»
La bocca della ragazza si aprì ulteriormente.
«Ho visto proprio il primo, maledetto vampiro.»
Creed contrasse il viso, come se quelle parole, benché pronunciate in tono sommesso, gli avessero provocato dolore.
7
s apete, certe persone rifiutano ostinatamente di credere a quanto i loro stessi occhi hanno appena mostrato. Ciò accade di solito perché in realtà non vogliono crederci, per motivi attribuibili a ignoranza, pregiudizi o cecità nei confronti degli enigmi della vita. Questo fenomeno può inoltre avere molto a che spartire con l'incapacità di far fronte agli aspetti sgradevoli del mondo in cui viviamo. La cosa non riguarda unicamente i singoli individui, ma al contrario si verifica con maggiore frequenza a livello di massa ed è spesso prevalente in determinati popoli (benché qui ci asterremo dal puntare il dito su una nazione in particolare, visto che nessuno di noi possiede i diritti d'autore sulla cecità). Per non andare troppo a fondo — e non deprimerci troppo — continuiamo a occuparci di Joe Creed.
Ora, non sarebbe davvero clemente biasimarlo per essersi rifiutato di prestare fede a quanto i suoi occhi gli avevano detto quella notte (ci riferiamo all'incredulità seguita all'episodio, naturalmente): alla fredda luce dell'alba, la logica tende a sollevare la sua testa intraprendente. Del resto, poi, se voialtri pensaste di aver scorto un vampiro, soprattutto se non si fosse presentato nella foggia oscuramente soave di Christopher Lee o Louis Jourdan né nella versione comicamente gessosa di Bela Lugosi, presumibilmente vorreste ragionare sensatamente con voi stessi e giungere a un accomodamento in grado di impedire l'insorgere di un esaurimento nervoso.
Vedete, l'originale Nosferatu/Dracula era quello davvero agghiacciante. Creato visivamente dal regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau per il proprio film Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu, una sinfonia di orrori), girato nel 1922 e liberamente tratto dal libro Dracula di Bram Stoker, il vampiro era rappresentato come una creatura simile a un ratto, con il cranio oblungo e calvo, lunghe e sottili zanne permanenti in bocca (a differenza degli incisivi che si allungavano magicamente nelle pellicole successive) e unghie ricurve somiglianti ad artigli. Per completare quell'immagine da far accapponare la pelle, il nostro personaggio era gobbo e sorretto da gambe esili e deformi. Questo era l'originale, il genere di individuo che vi augurereste sinceramente di non incontrare mai in un supermarket affollato, per non parlare di imbattervi in lui quando siete da soli nel cuore della notte.
Una visione di assoluta bruttezza, totalmente unica nel suo genere (a meno che non conosciate qualcuno che gli somigli).
Di conseguenza, Creed non era del tutto da biasimare per aver supposto (o per essersi costretto a credere) che si trattasse di un brutto sogno. Il furto in sé era sufficientemente reale, e sconcertante se per questo, dato che non era stato rubato praticamente niente: né oggetti di valore, né contanti, né materiale fotografico, video o ad alta fedeltà, ma solo qualche rotolo di pellicola e alcune fotografie. Se lui si dimostrava più lento di voi nell'immaginare il motivo, la colpa (lo ripeto) non era sua: di solito è molto più facile vedere le risposte quando si è un osservatore esterno.
Cionondimeno, non gli ci volle poi molto per intuire la ragione del furto. A quel punto, la polizia se n'era già andata, informandolo che sotto un certo aspetto era stato fortunato, visto che aveva disturbato l'intruso prima che rubasse oggetti di valore, e ancora più fortunato per non essere stato aggredito. Gli agenti avevano trovato la saracinesca del garage aperta e la serratura della porta di comunicazione con l'appartamento forzata, il che spiegava come il ladro si fosse introdotto in casa e perché il portone d'ingresso fosse intatto. Quando i ragazzi in blu gli avevano chiesto una descrizione del malvivente, Joe era diventato piuttosto ritroso: essendo ormai vestito, in compagnia, alla luce del giorno, rinvigorito dal brandy e da cinque sigarette, la sua memoria era stata sopraffatta dalla normalità quotidiana. «Un tizio esile e calvo», aveva risposto. «Ah, sì, ed era gobbo.» «Dubitiamo di poter fare un granché, signore. Piuttosto, lei provveda a installare una buona serratura sulla saracinesca del garage. Anche un bel sistema d'allarme non sarebbe una cattiva idea. Se si accorge che manca qualcos'altro, un oggetto importante, ci telefoni.» La reazione standard della polizia quando non si sono verificati gravi danni e non esiste una sola speranza di prendere il colpevole.
Solo quando gli agenti e Cally se n'erano andati, aveva finalmente capito il motivo dell'irruzione.
Tornò nella camera oscura per controllare e la sua ipotesi venne confermata: mancavano tutte le istantanee scattate al funerale. Qualcuno — ed era ovvio chi — non aveva voluto essere fotografato.
A giudicare dal comportamento dell'uomo al cimitero, Creed riusciva a comprendere benissimo il perché. La prova di un atto indecente (naturalmente, le foto non avevano mostrato niente del genere, ma lo svitato non poteva saperlo) con sfumature di necrofilia costituiva forse una ragione sufficiente per introdursi in casa altrui? Certo, se il responsabile era una persona abbastanza importante da rischiare che tutta la sua vita risultasse sconvolta da una rivelazione vergognosa. Per la prima volta da quella mattina, Creed sorrise.
Tuttavia, lo lasciava perplesso il modo in cui quel folle aveva scoperto chi lui fosse e dove abitasse. L'articolo sul funerale di Lily Neverless non sarebbe apparso se non nell'edizione odierna del Dispatch — ammesso che avessero deciso di pubblicarlo. In effetti, lui aveva stipulato un accordo con il quotidiano affinchè il suo nome comparisse sotto le sue fotografie, ma il problema rimaneva inalterato: come aveva fatto il ladro a sapere dove trovarlo?
Poteva anche sbagliarsi, però Joe avvertì il lieve solletico alle viscere che di solito gli indicava di essersi imbattutto in qualcosa di grosso, una storia degna di venire approfondita. Tra l'altro, il suo territorio privato era stato invaso, e a Creed (che razza di ipocrita) non garbava affatto. Nemmeno un po'.
Bisognava scoprire chi fosse il vecchio sporcaccione. Se davvero si fosse trattato di un personaggio noto, di sicuro qualcuno nell'ambiente giornalistico lo avrebbe riconosciuto dalla foto. Peccato che negativi e stampe, persino quelle completamente nere, fossero scomparsi.
Sorrise una seconda volta: oh, no, non erano per niente andati persi.
In quel momento squillò il telefono.
«Sì?» esordì lui in tono irritabile.
«Sono io, Cally. Sono appena arrivata in ufficio e volevo accertarmi che stesse bene.»
«Ma certo, sono in forma smagliante. Grazie per aver chiamato. Addio.»
«Ehi, aspetti! Non si è chiesto perché stamattina sono passata da lei?»
«Ammetto di non averci pensato molto.»
«Intendevo darle un programma degli spostamenti di Daniel durante questa settimana, impegni sociali, luoghi dove andrà a girare, cose del genere insomma.»
«Daniel? E chi sarebbe?»
«Il mio capo, Daniel Lidtrap. Non si ricorda la nostra conversazione dell'altra sera? Lei voleva tentare di farlo citare nella colonna relativa agli avvenimenti cittadini del suo quotidiano. A scopo pubblicitario, rammenta?»
«Ah, già, certo, hai ragione. Me n'ero scordato.»
«Non ne sono sorpresa. Come va il suo bernoccolo?»
«Multicolore. Grazie per stamattina, Cally. A proposito, hai un cognome e un numero di telefono?»
«Li ho trascritti sul programma che ho appeso all'intelaiatura della finestra in corridoio. Mi chiamo McNally.»
«Cally McNally?»
«Mi dispiace, ma non è colpa mia.»
«Possiede un certo ritmo. Ascolta, devo andare. Posso telefonarti più tardi per discutere delle foto da scattare a Giltrap?»
«Lidtrap. Va benissimo. Non si dimentichi dove le ho lasciato il mio numero. Spero che le passi presto il mal di testa.»
«Va già meglio. Ci sentiamo dopo, d'accordo?»
«Certo...»
Sorridendo, Creed riappese il ricevitore senza attendere i suoi saluti. La pressione stava salendo.
Si diresse subito al Dispatch, acchiappando una copia dell'ultima edizione, mentre passava davanti al banco della ricezione, e aprendola per quanto gli era consentito nella calca dell'ascensore.
Eccolo là, a pagina cinque. Spintonò gli altri passeggeri della cabina in modo da ricavarsi lo spazio per aprire ulteriormente il giornale. Una grossa foto su cinque colonne: un'ampia panoramica sulla cerimonia della sepoltura nel tentativo di mostrare quanto la vecchia Lily Neverless fosse stata amata (?) e rispettata, i dolenti sparpagliati lungo la pagina in varie sfumature di grigio. La didascalia citava i nomi di maggior rilievo, ma nessuno dei visi era riconoscibile. Joe esaminò quelle facce sfocate in cerca di una specifica persona, benché sapesse che sarebbe stato impossibile individuarla.
Le portiere dell'ascensore si aprirono e lui venne espulso assieme alla maggior parte degli occupanti. Si fermò nel corridoio per ispezionare più accuratamente l'immagine. Impossibile, non si distingueva niente, a meno che... poteva forse essere quel tizio lontano da tutti gli altri, sotto quell'albero laggiù? Strizzare gli occhi era inutile: la foto non avrebbe acquisito maggiore chiarezza. Tuttavia, poteva davvero trattarsi di lui, proprio sullo sfondo. Qualcuna delle altre istantanee si sarebbe forse rivelata più soddisfacente.
Si diresse al reparto fotografico del quotidiano, dove bussò alla porta della camera oscura; una voce all'interno gli rispose «Solo un secondo».
Deposta su una sedia la borsa con le macchine fotografiche, Joe indirizzò un gesto di saluto a un collega, Wally Cole (un veterano in forza al giornale da così tanti anni da potersi permettere di considerare Creed un novellino) che glielo ritornò con uno scontroso cenno del capo per poi immergersi di nuovo nello studio del programma delle corse di quel giorno. «Maledetti storpi», commentò fra sé, percorrendo l'elenco dei cavalli. Per consolarsi, si versò una dose di scotch nel caffè.
Ignorandolo, Joe tornò davanti alla porta della camera oscura. «Coraggio, Denny, io...»
Il battente si aprì prima che potesse finire la frase e un giovane sulla ventina gli rivolse un sogghigno, oltrepassandolo con una serie di negativi appena sviluppati.
«Posso riavere la roba che ti ho dato ieri?» gli domandò Creed.
«Di che si trattava?»
«Del funerale.» Gli mostrò la foto sul giornale.
«Ah, certo.» Denny puntò un dito in direzione di uno scaffale. «Sono lì da qualche parte. Non le ho ancora archiviate.»
Joe armeggiò fra le buste, esaminandone rapidamente le diciture. Ben presto trovò quello che stava cercando.
«Non ho tempo di sviluppare per te», si affrettò a informarlo il ragazzo, rientrando con fretta esagerata nella camera oscura tanto per enfatizzare il concetto.
«Ci penserò da solo.»
«D'accordo, ma non puoi rimandare a più tardi? Sono pieno di lavoro fino agli occhi.»
«Mi bastano solo un paio di minuti. È importante.»
«Perché, non è sempre così?»
«Prova a considerarla una decisione relativa alla carriera», gli suggerì Creed.
«E la chiami una carriera, questa? Va bene, due minuti. Siamo davvero incasinati, Joe.»
«Che Dio ti benedica, figliolo.»
Dieci minuti dopo il nostro eroe usciva, chiudendo la porta sulle lamentele provenienti dall'interno. Stringendo tre ingrandimenti ancora umidi, la borsa a tracolla, percorse il corridoio fino alla sala cronaca.
Una voce lo bloccò a metà strada.
«Che incarichi hai per oggi?»
Voltatosi, si trovò davanti Blythe, lo skinhead del pettegolezzo (per essere onesti, il giornalista possedeva un'abbondante capigliatura argentea tutt'attorno alla rosea e lucida sommità del cranio).
«Ecco, non saprei...»
«Come mi aspettavo. Vai al Claridge's Hotel. Ho appena saputo che Woody Allen sta alloggiando lì con l'intera prole.»
«Tutti i bambini?» A quanto Joe rammentava, in base ai calcoli più recenti ce n'erano sette o otto, alcuni nati dai precedenti matrimoni di Mia Farrow, altri adottati e perlomeno uno generato dall'attore stesso.
«Se li sta trascinando appresso per l'Europa per ragioni note solo a lui e a Dio. Fino a che punto può arrivare l'eccentricità? Un'orda di mocciosi petulanti controllati unicamente da Mia e da una governante. È completamente partito, ne sono certo.»
Creed, essendo ciò che era, trovò diffìcile sentirsi in disaccordo. Se Sammy poteva essere micidiale di per sé, figurarsi una vera mandria di marmocchi abbarbicati ai pantaloni. Cristo, una cosa del genere oltrepassava i limiti del buonsenso!
«Sai bene che non riuscirei mai a superare l'ingresso dell'hotel», affermò.
«In tal caso, sarai costretto ad aggirarti fuori al freddo», rispose Blythe con una certa soddisfazione. «Dopotutto è il tuo mestiere, non è vero? Gironzolare agli angoli delle strade, intendo.»
«Perlomeno mi tengo alla larga dalle fogne.»
«Sul serio? Questa è proprio una novità.»
Il cronista scosse la testa e a Joe venne voglia di spaccargliela. Preferì allontanarsi.
La voce gelida di Blythe lo fermò di nuovo. «Posso supporre che questa sera sarai alla festa organizzata al Grosvenor da lady Coventry?»
Lui se n'era completamente dimenticato. «Non l'ho scordato, stai tranquillo», mentì.
«Mi piacerebbe qualcosa di diverso dall'ingresso e l'uscita degli ospiti, se non ti dispiace.»
«Sei perfettamente al corrente di quanto sia difficile entrare a quel ricevimento. Lady Coventry è una fra le pochissime dame dell'alta società a detestare la pubblicità.»
«Non puoi mettere piede al Claridge's, non puoi mettere piede al Grosvenor... Il nostro ragazzo prodigio sta forse perdendo il tocco magico?»
Nei pressi, parecchi giornalisti stavano seguendo con interesse lo scambio di battute.
«Fino a oggi non sono mai stato sconfitto», dichiarò freddamente Creed, conscio che uno dei cronisti, che lo conosceva meglio degli altri, si era coperto la bocca con una mano e ridacchiava sommessamente.
«Bene, allora vedremo come te la cavi», reagì Blythe, evidentemente compiaciuto nel constatare che il paparazzo aveva accettato la sfida. «Le mie fonti mi dicono che ci sarà anche la duchessa di York, senza dubbio per spassarsela mentre il marito percorre gli oceani. So inoltre per certo che la sua dieta è finita nuovamente in malora, quindi che te ne pare di una bella foto di quel magnifico fondoschiena prominente?»
«Vuoi che ritragga il sedere di Fergie?»
«Sì, ma si deve vedere anche la sua faccia, perlomeno di profilo, ragazzo mio. Altrimenti potrebbe trattarsi del didietro di chiunque, non ti sembra?»
«Potrebbe rivelarsi complicato. Vedi, il sedere e la faccia si trovano alle estremità opposte e su due lati diversi del corpo.»
Si udì una risatina, ma il cronista si stava divertendo troppo per accorgersene.
«In tal caso, finalmente scopriremo fino a che punto sei bravo. Posso anche capire un'istantanea di Jack senza Anjelica, benché la coppia abbia cenato assieme per tutta la sera e sia uscita dal ristorante nello stesso momento. Jack che si butta a capofitto in un'auto può essere eccitante, ma certo non mi fornisce una storia per l'articolo. Ora, invece, hai due soggetti indissolubilmente legati alla vita da ritrarre in una singola inquadratura. Non mi sembra poi così difficile. E per dimostrarti quanto noi del Dispatch ammiriamo i tuoi sforzi, ti regalerò una bottiglia di champagne quando mi porterai la foto.»
Creed strinse i pugni, imponendosi di non reagire. Peccato che il direttore del giornale apprezzasse i servigi di quel verme più dei suoi: i paparazzi abbondavano, persino quelli bravi, mentre gli specialisti in pettegolezzi venivano valutati in base ai loro contatti nell'alta società e fra i personaggi celebri. Blythe, che andasse a farsi fottere, possedeva i migliori. Decise a malincuore che per quel giorno, solo per quel giorno, non lo avrebbe picchiato.
Il cronista si stava già allontanando, troppo superiore persino per sogghignare, e gli altri giornalisti tornarono a immergersi nel loro lavoro.
«Daresti un'occhiata a queste?» Esclamò in fretta Joe, bloccando Blythe sui suoi passi. Protese le stampe ancora umide e l'altro, con una smorfia, rimase ad aspettare che lui lo raggiungesse.
«Mi chiedevo se tu fossi in grado di riconoscerlo.» Creed gli porse le foto e lo osservò mentre esaminava le tre immagini sfocate del pazzo.
Blythe sporse le labbra e arricciò il naso come se gli fosse stato appena servito un vino di annata e temperatura sbagliate. «Non si può dire che la tua messa a fuoco sia migliorata di questi tempi», commentò.
«Ho dovuto ingrandirle parecchio. Questo tizio stava fra la folla ai funerali di Lily Neverless.»
«Sembra piuttosto orribile anche se i dettagli non sono molto chiari. Perché ti interessa tanto?»
«Nessun motivo particolare.» La sua risposta non era suonata affatto convincente, come le sopracciglia inarcate di Blythe gli indicarono senz'ombra di dubbio. «Ecco, mi è parso vagamente familiare e mi sono domandato se non appartenesse al passato di Lily.»
«Mio caro ragazzo, credevo che quasi tutti in quel cimitero facessero parte del passato di Lily Neverless. Se no, perché avrebbero dovuto prendersi la briga di partecipare?»
«Lo riconosci?»
Il cronista gli rese le stampe. «Per la verità, no. Però potrei rifletterci meglio se solo tu mi spiegassi come mai ti interessa tanto saperlo.»
Questa volta fu Creed ad allontanarsi. «Non fartene un problema», dichiarò.
Quando Joe raggiunse la sua scrivania, il direttore del settore fotografico era al telefono e gli indicò con una matita la sedia di fronte a sé. Il nostro eroe si accomodò e accese una sigaretta, distratto dal battibecco appena avuto con Blythe. Come diavolo avrebbe fatto a scattare una foto del genere a Sarah Ferguson? Il personale del Grosvenor (o, perlomeno, quelli che contavano) lo conosceva troppo bene per consentirgli di entrare senza invito. Il massimo cui poteva aspirare era qualche istantanea della duchessa all'ingresso o all'uscita. Forse sarebbe inciampata nel marciapiede scendendo dalla macchina. Certo, e forse Salman Rushdie avrebbe partecipato alla Ruota della Fortuna. Merda, non c'era niente che detestasse di più di una sfida.
«Come va, Joe?»
Lui alzò lo sguardo su Freddy Squires, un altro veterano che aveva conosciuto Fleet Street prima dell'esodo, intento a sbirciarlo al di sopra degli occhiali. «La vita potrebbe mostrarsi più gentile», gli rispose.
«Così pare. Quale personalità di spicco ti ha dato un cazzotto ieri sera? O è stata di nuovo una delle tue amichette?»
Creed si toccò automaticamente la fronte e sussultò per il dolore. «Sono caduto dalle scale.»
Squires lo guardò con aria scettica.
«E vero. Sono rotolato dalla cima fino in fondo. La mia gatta ha cercato di uccidermi.» Non si sentiva dell'umore di scendere nei dettagli. Cristo, che cosa avrebbe pensato il vecchio se gli avesse rivelato di aver ricevuto una visita del conte Dracula? All'ora di pranzo, i bar attorno all'ufficio sarebbero stati particolarmente festosi.
«Non credevo fossi il tipo da animali domestici.» Il direttore cominciò ad armeggiare con i fogli sulla scrivania, ormai concluso l'argomento dello stato di salute del fotografo. «Hai qualcosa per noi?» chiese «Con la sua voce ruvida e i suoi modi diretti, Squires apparteneva tuttavia alla minoranza che nutriva per Creed una calorosa stima. Il fatto che Joe gli avesse fornito alcune fra le migliori istantanee degli ultimi cinque anni in termini di pubblicabilità e senso dell'ironia aveva molto a che spartire con quest'opinione; soprattutto, però, il direttore amava gli originali e, a suo modo di vedere, Creed lo era all'ennesima potenza, a prescindere da qualsiasi altro aspetto del suo carattere.
«È ancora un po' presto, Fred.»
Squires sogghignò davanti all'espressione addolorata del fotografo e gli porse un foglio. «L'elenco dei tuoi incarichi per il resto della settimana: una prima cinematografica, un'asta di beneficenza, niente di esaltante, ma pur sempre un foraggio ragionevole. La roba sul funerale di ieri era buona, tra parentesi.»
«Grazie. Ti volevo parlare proprio di quello.» Joe gli porse le stampe. «Riconosci questo tizio? Siccome era al funerale, ho pensato che potesse essere una vecchia conoscenza di Lily.»
Squires studiò ciascuna foto per alcuni secondi. «Perché vuoi saperlo?»
«Ecco... l'ho sorpreso affaccendato in una cosa dopo la sepoltura, quando tutti se n'erano andati. Una cosa alquanto piccante.»
«Non hai altre istantanee?»
«Non esattamente.»
«Coraggio, figliolo, non sprecare il mio tempo.»
«Abbi pazienza, Fred. Per ora, accontentati di dirmi se sai chi sia.»
Lo sguardo del direttore tornò a concentrarsi sulle foto. Dopo una pausa di silenzio, scosse lentamente la testa. «Non posso affermare di conoscerlo, anche se mi sembra vagamente familiare. No, non riesco proprio a ricordarmelo. È molto importante?»
«Per il momento non ne sono sicuro.»
«Sai che cosa faccio? Ne tengo una per mostrarla in giro. Peccato che la foto sia così poco chiara. È davvero tutto ciò che hai?»
«Queste sono le migliori.» Joe continuava a sentirsi poco incline a diffondersi sui particolari.
Squires rimise nella busta due stampe e gliele rese. «Va bene. Sai che Woody Allen è al Claridge's, vero?»
«Sono stato informato.» Creed mise la busta nella borsa e si alzò, la sigaretta penzolante fra le labbra.
«Non hai un bell'aspetto, Joe. Hai fatto vedere quel bernoccolo a un medico? Potresti avere una commozione cerebrale, te ne rendi conto?»
«Sto benissimo. Un po' di mal di testa, ecco tutto. Mi farai sapere qualcosa su quella foto?»
«Certo. Oh, Joe...»
Lui si fermò.
«Datti una rasata prima di andare all'hotel. Sai che cosa succede quando individui male in arnese si mettono a gironzolare davanti alle loro porte.»
«Vai a succhiare le tette di tua nonna», ribatté Creed amabilmente.
«Ho succhiato di peggio. Abbi cura di te.» Sorridendo, Squires si rituffò nel lavoro.
Dieci minuti dopo che il fotografo se n'era andato, però, riprese in mano la stampa. Con la fronte corrugata, si picchiettò la matita sui denti.
Sicuro, riflette. Ho già visto questa faccia da qualche parte. Ma dove? In che diavolo di circostanze?
O qualcuno aveva aperto una finestra, oppure un ricordo accantonato da tempo lo raggelò di colpo.
8
c ome sempre, guidare attraverso il West End era un incubo, il che non migliorò affatto il suo umore. Alt-via-a passo d'uomo-bestemmie-alt, non necessariamente in quest'ordine: un giorno o l'altro, l'intera città sarebbe crollata su se stessa, e per quello che importava a Creed poteva capitare in quel preciso momento.
La testa gli doleva e sentiva in bocca un sapore sgradevole. Tagliò la strada a una Volvo e sollevò il medio in risposta all'ingiuriosa strombazzata del veicolo. Per le vie splendeva il sole, ma ciò non rendeva più gradevoli i canali di scarico dei marciapiedi, invasi dalla spazzatura. La maggior parte dei pedoni appariva depressa quanto lui; quelli che si trovavano costretti ad attraversare, invece, sembravano semplicemente apprensivi.
Questa volta fu una Ford Sierra a tagliare la strada a lui, e Joe, oltraggiato, picchiò sul clacson desiderando che fosse il muso di quel pirata. Preferì desistere quando notò la larghezza delle spalle dell'altro guidatore e lo spessore del suo collo.
La mente del nostro eroe non era più rivolta all'episodio della notte precedente: in piena luce, aveva assunto contorni un po' troppo irreali. Un vampiro nell'attico? Meglio lasciar perdere. D'accordo, aveva visto qualcosa, qualcuno, ma ovviamente non ciò che aveva creduto. Ormai non si sentiva certo se si fosse trattato di immaginazione (dopotutto si era appena svegliato e moriva di paura) o di un falso ricordo. Visto che la sua testa aveva subito un brutto colpo, forse la memoria ne aveva risentito. Del resto, la tangibile realtà quotidiana di traffico caotico, cronisti pettegoli dal carattere perfido, cranio martellante e incarichi impossibili imponeva una concretezza che risultava perversamente confortante se paragonata all'alternativa.
Il Claridge's Hotel era a soli pochi metri. Creed parcheggiò in divieto di sosta a sufficiente distanza dall'ingresso da non ostacolare, ma abbastanza vicino da potere tenere d'occhio la jeep in caso un nazista del traffico (vigile) si fosse aggirato nei paraggi. Notò un altro fotografo fuori dell'albergo e si chiese se stesse vagabondando con intenti pericolosi o meno. Nel caso di luoghi di alta classe come il Claridge's, esisteva sempre la possibilità di imbattersi quotidianamente in qualche personaggio famoso, quindi, se il mercato non offriva niente di meglio, non poteva nuocere attardarsi sul posto per un'ora o due.
Chiuse la jeep e si avviò verso il paparazzo in attesa che, vedendolo arrivare, assunse un'espressione tetra. Joe riconobbe Terry Roche, un professionista con un'anzianità di carriera doppia rispetto alla sua.
«C'è qualcuno in casa?» gli chiese senza sprecare tempo in saluti.
«Dacci un taglio, Joe», ribatté l'altro.
Dunque, entrambi conoscevano la posta in palio.
«Si diverte a portare i bambini al parco, vero?» osservò Creed, estraendo una Nikon dalla borsa e mettendosela al collo.
«Già, ho scambiato due parole amichevoli...», Joe capì che le «parole amichevoli» erano giunte dal portiere «...e sono venuto a sapere che stamattina non ha ancora messo piede fuori.»
«È una bella giornata. Non dovrebbe metterci ancora molto. Qualche idea sul perché si trova qui?»
Terry scrollò le spalle. «Sta cercando qualche sfondo europeo per le scene in esterni, a quanto ho sentito.»
«Non dirmi che ne ha avuto abbastanza di New York.» Parlando, Creed guardava al di sopra della spalla del collega nell'atrio dell'hotel. A quel punto, tolse senza fretta la protezione all'obiettivo della Nikon e controllò rapidamente la regolazione. Un colpo di fortuna, pensò, evitando con cura di avvertire Roche. Un paio di buone inquadrature e potrò andarmene.
Abbiamo già menzionato l'improvviso acuirsi della tensione in occasioni del genere, un'atmosfera sufficientemente palpabile da potere essere avvertita da professionisti del calibro di Terry Roche.
«Sta uscendo?» chiese infatti a Joe, senza voltarsi a controllare di persona.
«A momenti. Non muoverti, se ti sposti vedrà la mia macchina fotografica.»
«Ha con sé i bambini?»
Creed assentì.
«È Mia Farrow?»
«Se è lei, sembra diversa dal solito.»
«Ma certo, mi è già capitato di osservarla fuori delle scene. Non si mette mai in pompa magna.»
«Puoi ben dirlo. Spostiamoci di lato, in modo che trovino l'uscita sgombra.»
Il loro tentativo di mostrarsi noncuranti mentre eseguivano una specie di danza laterale sul marciapiede non fu molto convincente, ma per fortuna la preda aveva un manipolo di bambini da organizzare, il che richiedeva la sua incondizionata attenzione.
Una volta fuori vista, Creed e Roche sollevarono le rispettive macchine fotografiche e rimasero in equilibrio come cacciatori pronti a sparare.
Attesero fremendo per la tensione.
E attesero.
E attesero ancora.
Ma nessuno emerse dal Claridge's perché, come tutti sanno, Woody Allen è molto più intelligente di quanto non sembri: aveva condotto la prole all'uscita laterale.
* * *
Per Creed, il resto del giorno non si dimostrò molto meglio. Senza nessuna specifica missione da compiere, visitò i ristoranti più in voga senza trovare soggetti degni di nota, benché avesse sorpreso due membri del parlamento di sesso maschile, un laburista e un liberal-democratico che notoriamente intrattenevano un'«amichevole» relazione, mentre lasciavano un locale a braccetto (se la combinazione fosse stata laburista e conservatore, allora una foto sarebbe valsa la pena). Nel tardo pomeriggio, il suo mal di testa peggiorato sino a sfiorare l'emicrania, decise di tornare a casa e di dedicarsi all'unica cosa per cui si sentisse pronto. Spogliatosi completamente, si infilò sotto la trapunta, tirandosela sopra il capo per escludere il resto del mondo. Si addormentò in un attimo.
Fece un brutto sogno, ma al suo risveglio non riuscì assolutamente a ricordare un solo particolare; tutto ciò che sapeva era che, nonostante il dolore alla testa si fosse calmato, avvertiva una sensazione di disagio. La casa era immersa nell'oscurità.
Si sfregò le palpebre per rimetterle in funzione e, quando aprì gli occhi, scorse la figura in nero che lo osservava dalla soglia. Questa volta, però, (e gli ci vollero parecchi agghiaccianti secondi per accorgersene) si trattava davvero della vestaglia appesa alla porta. «Cristo», borbottò, accendendo la lampada sul comodino.
6.48, segnava la sveglia. Per un istante fu preso dal panico. Di mattina o di sera? Di certo non poteva aver dormito tutta la notte.
No, infatti. Non c'era traccia del gelo mattutino né delle condizioni atmosferiche che segnalavano l'inizio di un nuovo giorno. Giacque nel letto, un braccio attorno al cuscino al proprio fianco. Devo andare a lavorare, si disse. Turno di notte. Che incarico gli era stato assegnato?
Rammentò la sfida e gemette. Perché diavolo non aveva spiegato a Blythe in quale zona dove non batte il sole avrebbe potuto ficcarsi il suo piccolo progetto? Era esistito un tempo in cui Creed si sarebbe eccitato alla prospettiva di un servizio complicato, ma al giorno d'oggi tutto gli sembrava un inutile cruccio. No, non era del tutto vero: la scintilla non si era spenta, solo che occasionalmente stentava ad accendersi. Quello era un periodo di funzionamento difettoso.
Fece una doccia, giunse addirittura al punto di radersi (se fosse riuscito a entrare al Grosvenor, doveva apparire perlomeno semidecente), quindi trascorse dieci minuti in bagno a leggere un paio di pagine di Dal Big Bang ai buchi neri di Hawking per sgombrare completamente il cervello. Lasciò bruciare una pizza surgelata, trangugiò tre tazze di caffè, fumò quattro sigarette, controllò le macchine fotografiche e aprì una scatoletta di cibo per Grin, che si manteneva a rispettabile distanza, o per senso di colpa oppure per sano buonsenso.
Verso le otto e un quarto suonò il campanello.
Per ragioni che non avrebbe ammesso neppure con se stesso, Joe spalancò la finestra della camera da letto e guardò fuori.
«Sì?» gridò, non essendo in grado di riconoscere la figura alla fioca luce della strada.
«Sono io, Cally.»
«Ebbene?»
«Ecco...» Una breve pausa. «Posso vederti per un attimo?» Si era decisa a dargli del tu.
Lui si rammentò quanto fosse bella. «Vengo subito.»
Gli piaceva sempre di più, si rese conto nell'aprire il portone: quella lieve imperfezione nei suoi tratti (i denti davanti un po' storti) gli sembrava in perfetta armonia con il resto del quadro. Quella sera era pettinata in modo diverso, con la scriminatura laterale e morbide onde. La gratificò del sorriso alla Mickey Rourke, scordandosi per un istante l'impossibile missione notturna.
«Il bernoccolo è calato», osservò lei entrando in casa. Joe staccò in fretta il foglio che la ragazza gli aveva lasciato quella mattina e se lo nascose dietro la schiena.
«Non duole neppure», dichiarò. «Devo uscire tra poco, ma se vuoi bere qualcosa...»
«Non intendo trattenerti. So che sei molto occupato e che di recente hai avuto altre cose di cui preoccuparti, ma mi chiedevo se ti si fosse presentata l'occasione di dare un'occhiata agli impegni di David per la settimana.»
«Ma certo, visto che è molto importante per te. Penso di potercela fare, in una circostanza o nell'altra.»
«Credo che lo zoo sia particolarmente adatto.»
«Già, lo avevo notato anch'io.» Che cosa diavolo doveva fare Lidmap in uno zoo?
«Di solito, per girare lo spot, gli scimpanzè venivano portati allo studio. In questa nuova campagna, invece, saranno le bustine del tè a spostarsi allo zoo. Hai presente il filmato, quello in cui un gruppo di scimpanzè osserva altre scimmie intente a bere il tè?»
«Ah. Che ne dici di un drink?»
«Non voglio farti perdere tempo.»
Potrebbe valerne la pena, pensò lui. «Posso sempre risparmiarmi gli arrivi. Devo andare a un ricevimento di beneficenza al Grosvenor, e le cose non si movimenteranno prima delle dieci. Coraggio, vieni.»
Lasciò che fosse Cally ad aprire la strada, principalmente per lo spettacolo, ma anche per potersi infilare in tasca il suo elenco.
«Si è fatta viva la polizia?» chiese lei.
«Stai scherzando? Sai quante intrusioni si verificano a Londra nell'arco di ventiquattr'ore?»
«No, quante?»
«Un sacco. Non avrò più notizie dalla polizia, stai sicura. Gira a sinistra.»
La ragazza entrò in soggiorno e lui si fermò sulla soglia. «Che cosa vuoi bere?» domandò.
«Vino bianco secco, se ce l'hai.»
Quando Joe si fu diretto in cucina, Cally si guardò attorno. La stanza era poco ordinata, ma non conteneva abbastanza oggetti da risultare caotica. Alle pareti erano appese tre stampe ricavate da fotografie, due di Cartier-Bresson in bianco e nero e una di Elliott Erwitt: con le loro ombre nette e i grigi granulosi, sembravano piuttosto cupe, eppure ciascuna emanava un sottile umorismo. In un angolo stava un piccolo televisore e, su un ripiano, un impianto di alta fedeltà circondato da cassette, alcune delle quali prive di custodia. Sopra il caminetto, un guazzabuglio di buste aperte, il cui contenuto spuntava all'esterno come se fosse stato letto frettolosamente e subito accantonato, un vecchio orologio che segnava l'ora sbagliata, una scatola di fiammiferi e una candela rossa in un candeliere d'argento.
Un tavolino invaso di riviste separava il divano e una poltrona di stili disparati, benché i rispettivi cuscini fossero dello stesso colore. La ragazza si accomodò sul divano e riprese il proprio esame del locale.
Non esisteva illuminazione sul soffitto: la luce proveniva da due lampade situate in angoli opposti, una delle quali era appoggiata a una bassa scaffalatura che non conteneva libri, bensì una collezione di vecchie, se non antiche, macchine fotografiche. Una pianta di plastica dalle foglie marroni ai bordi contendeva a un portacenere stracolmo l'esiguo spazio di un secondo tavolino accanto alla poltrona.
A parte i cuscini, niente combinava, neppure il tappeto e le tende; tutto ciò che si trovava lì sembrava essere stato acquistato per la sua praticità, non certo con un occhio all'armonia del design.
Dalla cucina giunse il rumore di bicchieri. Un gatto, quello sconcertante esemplare che dava l'impressione di sogghignare in permanenza, la stava osservando dalla soglia. Il felino la studiò per qualche minuto, rifiutandosi di avventurarsi oltre nonostante ripetuti inviti, quindi sparì, per nulla interessato alla nuova venuta.
Un tonfo, come se qualcuno avesse inciampato, e Creed si fece avanti con due bicchieri e una bottiglia. «Ucciderò quella gatta», borbottò.
«Sei sicuro che non ti sto facendo perdere tempo?» chiese lei, prendendo un bicchiere.
«Ne ho ancora un sacco a disposizione. Tra l'altro ho bisogno di qualcosa che mi aiuti ad affrontare la notte.»
«Perché, che cosa devi fare?»
«Meglio che tu non lo sappia.» Si sprofondò nella poltrona. «Tu e Milchip avete una relazione?» domandò in tono assolutamente casuale.
Lei sobbalzò. «Io e chi?»
«Il tuo capo, il regista.»
«Daniel Lidtrap? Che cosa te lo fa pensare?»
Lui scrollò le spalle. «Sei così ansiosa di renderlo famoso.»
«Nell'ambiente della pubblicità lo è già.»
«Poca roba. Non insisteresti tanto con me, se questo significasse qualcosa nel mondo reale.»
«Probabilmente hai ragione. Invece ti sbagli sull'altra questione. A Daniel non interessano le donne.»
Creed sorrise sorseggiando il vino.
«Sei — eri — sposato?»
«Ero. Lei si è presa la maggior parte dei miei beni terreni, incluso mio figlio.»
«Ti deve mancare molto.»
«Non troppo. È quasi sempre un moccioso con la puzza sotto il naso.»
Lei nascose la propria sorpresa dietro il bicchiere. «Lo vedi spesso?»
«Compio il mio dovere ogni quindici giorni. Perlomeno ci provo.» Decise di procedere nel rituale del reciproco sondaggio. «E tu, Cally? Se non sei impegnata con il tuo capo, hai qualcun altro?»
«Niente di significativo. Il mio lavoro è più importante di...»
In qualche punto fuori del soggiorno, un telefono aveva cominciato a squillare. Joe depose il bicchiere mormorando qualcosa a mezza voce.
«Torno subito. Serviti pure, mentre sono via.» Avvicinò la bottiglia alla ragazza, spingendo da parte alcune riviste per ricavarle spazio sul tavolino. Una busta scura scivolò sul pavimento.
Cally finì il vino, ma non se ne versò dell'altro; prese invece dal tappeto la busta marrone.
Vi guardò dentro senza la minima esitazione e non manifestò alcuna reazione nell'estrarne due diverse fotografie della medesima faccia devastata.
9
È tempo di interrompere la narrazione per fornirvi alcune nozioni alquanto sommarie sulla carriera del nostro eroe prima che l'intreccio (per quanto ne siete a conoscenza finora) cominci a infittirsi.
Joseph Creed ha visto e sperimentato molto. Di conseguenza, amava ritenersi una specie di cinico deluso dal mondo; in effetti, va sottolineato a suo merito, lo era, e il fatto che caricasse quest'immagine fino ai limiti della villania non sminuiva comunque la realtà.
Parte di tale cinismo derivava dal suo ambiente. In qualità di fotogiornalista (per conferire un titolo più rispettabile alla sua professione), aveva teso imboscate ai momenti privati dei personaggi eminenti e quasi-eminenti, rivelando spesso al pubblico situazioni che le parti interessate avrebbero preferito mantenere sotto un velo di discrezione. Quando lo scandalo aleggiava nell'aria, Creed e la sua razza (nessuna scusa ai ragazzi per aver scelto questo termine) erano come avvoltoi in attesa che la preda barcollasse e cadesse, in modo che cibarsi dei resti risultasse più facile; e, generalmente, la preda cadeva. Nel suo aspetto più innocuo, il mestiere di Creed consisteva semplicemente nell'immortalare la celebrità di turno mentre aveva un'espressione stupida, in compagnia della fiamma più recente o addirittura quando tentava di scagliarsi contro la macchina fotografica; se il soggetto era di sesso femminile, un'istantanea di una coscia troppo esposta o di una scollatura generosa rappresentava sempre uno fra i temi favoriti. Lavorare per molti anni sulla base della massima per cui «le buone notizie non sono notizie», tuttavia, rendeva naturale la ricerca del lato più oscuro o più squallido della natura umana e, quindi, dello scatto maggiormente idoneo a evidenziare il concetto. In un certo qual modo, era una vergogna che Creed rimanesse raramente deluso nelle proprie ricerche.
Intorno alla ventina, aveva trascorso alcuni anni vagabondando per l'America, trovandosi un impiego ove possibile e spostandosi non appena si sentiva piombare nella routine, trasferendosi da costa a costa, da New York a Los Angeles, fermandosi per riprendere fiato e guadagnarsi un po' di soldi in vari punti lungo il cammino: Charleston, Knoxville, Nashville, Salt Lake City e innumerevoli altri posti di cui non avrete mai sentito parlare. Non si trattava di un tragitto diretto con tappe programmate: una conversazione con una ragazza carina in una stazione, un'occasionale birra con un indigeno che, dopo il quarto o quinto boccale, si trasformava in un amico del cuore, un cartello di cercasi personale nella vetrina di un negozio — qualsiasi situazione interessante andava bene.
Talvolta erano le circostanze, più che il desiderio, a trattenerlo in un luogo, in altri casi il contrario (un turgido corpo femminile costituiva sempre un valido motivo per attardarsi). Spesso gli veniva imposto di andarsene prima che fosse lui a prendere l'iniziativa.
A Los Angeles lavorò per un certo periodo in uno studio di registrazione (più come fattorino che come arrangiatore), ma fu presto costretto a precipitarsi all'altro capo del Paese in seguito a un episodio in cui erano stati coinvolti una corista nera, il suo furente fidanzato, un impianto danneggiato e una Plymouth Fury distrutta (quest'ultima a causa della partenza frettolosa e poco accorta di Creed). Impiegò meno di un mese per tornare a New York, dove un incarico in qualità di tuttofare presso una rivista di moda suscitò il suo interesse per la fotografia. Imparò quanto poteva dai professionisti dello staff, ma mise termine a quella specifica carriera (che avrebbe potuto rivelarsi promettente, chissà) quando un giorno prese a prestito una Leica dallo studio per uso personale e uno sconosciuto per la strada la «prese in prestito» da lui. A quei tempi non era ancora un bugiardo provetto, quindi venne arrestato in men che non si dica.
Fu così che le autorità si interessarono alle sue attività e si chiesero come mai Joseph Creed sembrasse non esistere in alcun elenco ufficiale, particolarmente in quello riguardante i permessi di lavoro. La decisione di fare ritorno in Inghilterra non fu soltanto sua.
A soli tre mesi dal suo rientro in patria, sua madre morì per un attacco cardiaco (il padre se n'era andato da anni, ma con una segretaria, non esalando l'ultimo respiro) e, grazie all'esigua eredità lasciatagli, Creed acquistò la casa in cui tuttora abitava, un'iniziativa che si sarebbe dimostrata il suo investimento più saggio, per non dire l'unico. Con i pochi soldi rimasti, si era comprato qualche mobile e l'attrezzatura fotografica di base (ossia una Nikon e due rullini di pellicola).
Si appassionò alla vita del paparazzo come un'anitra all'acqua o un maiale al fango, accorgendosi di possedere una naturale predisposizione per il momento esatto e la foto giusta in una professione in cui la faccia tosta era tutto e il ladro di immagini raggiungeva la vetta. Qualche foto fortunata gli fornì l'avvio e ben presto riuscì a guadagnarsi una certa reputazione con un paio di gesta temerarie. Corse rischi, si avventurò dove anche i diavoli non osavano avventurarsi, indusse con l'inganno, mentì, frodò, diede la propria parola e non la mantenne, non ebbe riguardi per l'intimità di nessuno. Era un professionista e, che il cielo lo aiuti, amava l'odore della sporcizia.
In tempi più recenti, però, aveva cominciato a mancargli qualcosa. Ciascun incarico gli sembrava identico al precedente e al successivo. Esistevano variazioni, naturalmente, ma in sostanza la routine rimaneva sempre la stessa: gironzolare nei pressi, annoiato fino alla nausea, un'improvvisa e clamorosa scarica di adrenalina, un brivido della durata massima di un paio di minuti, quindi l'attesa di un'altra dose, scalpitando, sprecando il tempo, virtualmente sposato con la macchina fotografica, maledetta quando ti abbandonava e adorata se faceva ciò che le chiedevi. E tu, tu stesso, vilipeso e corteggiato in parti uguali (no, siamo onesti: più vilipeso che corteggiato), in giro per le strade quando la gente perbene dormiva nel proprio letto, facendo finta di nulla se venivi offeso (una volta Creed si era preso un ceffone su un orecchio da Robert Redford), etichettato come un parassita da una società che si nutriva alle tue spalle.
Queste e altre riflessioni serpeggiavano nella mente di Creed nei momenti di depressione; negli intervalli di buonumore, invece, era convinto di dedicarsi alla professione migliore del mondo. Sfortunatamente, in quei giorni le depressioni erano di gran lunga più frequenti del buonumore.
Ad ogni modo...
...eccolo qui al volante, diretto al Grosvenor House Hotel, di umore lievemente sollevato. Qualche tempo prima aveva ispezionato il territorio, era stato espulso dall'uscita posteriore, quella per il personale e per le merci (la sorveglianza era straordinariamente stretta a causa della visita di un'esponente della famiglia reale), e aveva infine raggiunto la conclusione che non sarebbe entrato in nessun modo. Nel frattempo si potevano ricercare altre possibilità: la telefonata che aveva interrotto il suo colloquio con Cally proveniva da un agente pubblicitario il cui cliente, un anziano comico in rapido declino, stava celebrando assieme all'ultima amante il proprio compleanno con una festa in grande stile in un notissimo ritrovo notturno (qualsiasi forma di pubblicità era buona quando stavi scendendo la china). Creed si era precipitato, godendosi soprattutto il momento in cui la moglie abbandonata, con l'aiuto dell'altrettanto abbandonata figlia (che a sua volta assomigliava a una mantenuta), aveva versato una brocca di pinacolada addosso all'amica del marito. Dopo di che, considerevolmente rallegrato, aveva completato il giro di ronda, ben sapendo che al Grosvenor non sarebbe accaduto niente fino a mezzanotte passata. Avrebbe potuto immortalare l'arrivo della duchessa di York, in effetti, ma il pezzo forte sarebbe stato rappresentato dall'uscita, dopo qualche bicchiere e in uno stato d'animo vispo (Fergie era rinomata per la vivacità). Benché la nobildonna non fosse di solito restia ad accontentare i fotografi, Joe dubitava seriamente che avrebbe posato per il particolare genere di scatto che lui aveva in mente.
Ma quella notte avrebbe ottenuto qualche risultato. Certo, non se ne sarebbe andato senza qualcosa...
Creed rallentò nei pressi dell'hotel, notando la fila di limousine e Rolls con autista in attesa lungo il marciapiede. Accanto alle porte girevoli che conducevano al salone principale del Grosvenor non era stato lasciato libero nemmeno un po' di spazio, e ciò lo rese sospettoso. Il gruppo di fotografi era radunato all'esterno, assieme ai soliti curiosi che si fermavano dovunque vedessero una folla di fotografi. Lui proseguì.
L'altro ingresso, che portava direttamente alla ricezione, si trovava dietro l'angolo, in una via laterale. Joe vi si diresse e parcheggiò la jeep in un vicolo; tornando sui propri passi con la borsa in spalla, si fermò nel riconoscere un veicolo familiare.
Sorrise rammentando il colpo in testa ricevuto la sera prima davanti a Langan's. Niente di paragonabile alla botta subita cadendo dalle scale, ma perlomeno questo sarebbe stato vendicato.
Si inginocchiò di fianco all'auto ed estrasse da una tasca un tubetto.
Raggiunse gli altri paparazzi (quelli astuti), in tempo per scorgere il suo vecchio amico Bluto intento a litigare con gli addetti alla sicurezza nell'atrio dell'hotel. Magnifico! Nello sforzo di passarsi per un ospite, Bluto aveva lasciato le macchine fotografìche in macchina e aveva ovviamente con sé soltanto un modello in miniatura. Senza alcun dubbio era stato individuato due secondi dopo essere entrato e doveva ancora ritenersi fortunato per essere stato etichettato per ciò che era e non per un terrorista, ossia per quello che sembrava.
I paparazzi esperti sapevano bene quanto fosse inutile litigare quando il loro gioco veniva scoperto, e infatti Bluto se ne andò scontrosamente, ignorando le urla di benvenuto dei compatrioti all'esterno.
Indirizzò a Creed una smorfia di disprezzo, quindi osservò con sospetto il suo sogghignò in stile io-so-qualcosa-che-tu-non-sai; infine passò oltre, attraversando la strada in direzione della propria auto, sicuramente per prelevare le macchine fotografiche di dimensioni normali.
«Qualche accenno d'azione?» domandò Joe al collega più vicino.
«L'hai appena vista. A parte quello, niente. Fergie è dentro, con qualche altro degno di una foto.»
Creed notò nell'atrio il gruppo dei fotografi reali, una cerchia permanente di privilegiati cui era garantito l'accesso in simili occasioni. Dunque, lui e i pochi astuti che lo attorniavano avevano visto giusto: la duchessa di York sarebbe uscita da quelle porte. L'indizio chiave, ciò che i giovani leoni all'altro ingresso erano stati troppo stupidi per notare, era il fatto che sul marciapiede mancava lo spazio riservato al veicolo reale: le guardie del corpo di Fergie non le avrebbero assolutamente permesso di camminare per la strada.
Controllò l'orologio. Mezzanotte meno cinque. Tutto il tempo per una sigaretta o due. Con un po' di fortuna, l'indomani lei avrebbe avuto un programma intenso e non si sarebbe trattenuta lì fino a tardi. Con un po' di fortuna...
Accese un fiammifero, ma lo fece immediatamente cadere a terra. Stava succedendo qualcosa. Gli ospiti si stavano fermando, i fotografi reali avanzavano in fretta, gli obiettivi puntati: la duchessa era ovviamente in procinto di uscire.
Benché i paparazzi all'esterno fossero soltanto cinque, iniziò una mischia in cui ognuno manovrava per conquistare la posizione migliore; un portiere si fece immediatamente avanti per spingerli indietro.
Nel frattempo, nel vicolo, Bluto stava lottando freneticamente con la portiera dell'auto. Per qualche strana ragione, la chiave non girava nella serratura; quando poi cercò di estrarla per tentare con un'altra portiera, si rivelò inamovibile. Il bruto tempestò di pugni il tetto della vettura, quasi lo stesse deliberatamente ostacolando, quindi scosse violentemente la maniglia come se la furia di per sé fosse sufficiente a risolvere la situazione. Si sporse in avanti per esaminare la serratura, toccò il metallo e per poco i polpastrelli non rimasero incollati. Imprecò ad alta voce, mosse un passo indietro e sferrò un calcio al pneumatico. A quel punto udì il trambusto alle proprie spalle e vide i primi lampi delle macchine fotografiche.
Si ricordò il sorriso sfottente di Joe Creed.
«Bastardo!» sibilò.
A differenza dei colleghi, Joe era rimasto inattivo, giudicando privo di senso sprecare pellicole per ritrarre i famosi capelli rossi di Fergie ondeggianti al di sopra delle teste di colore che la attorniavano. Era ormai rassegnato ad accontentarsi di ben meno del previsto e a inghiottire il rospo nel momento in cui avrebbe consegnato la mercé all'avido cronista del Dispatch. Talvolta le cose funzionano così. Un po' si vince e un po' si perde. Non poteva farci proprio niente, ma perlomeno si sarebbe sforzato di scattare qualcosa: si sarebbe accontentato anche solo di qualcuna fra le sue tipiche espressioni da svanita. Una Daimler si accostò all'ingresso, costringendo i paparazzi a spostarsi, e l'usciere si precipitò ad aprire la portiera posteriore.
Ed eccola lì, che si agitava sulla soglia, preceduta da una guardia del corpo. Coraggio, piccola, fammi una smorfia!
Udì un ruggito proveniente da un punto alle proprie spalle e si voltò in tempo per scorgere un'enorme sagoma scura che spingeva da parte chiunque si trovasse sul suo cammino, puntando dritta su di lui.
Creed si gettò automaticamente di lato e Bluto gli piombò addosso, mulinando le braccia ed emettendo un ringhio incoerente che lasciò allibiti, se non terrorizzati, tutti coloro che si accalcavano lì attorno.
Entrambi caddero scompostamente sul selciato, ma Bluto, sotto la spinta del suo stesso impeto, finì praticamente prostrato ai piedi di lady Sarah. Due individui di notevole mole si gettarono istantaneamente sopra di lui, ossia la guardia del corpo della duchessa e un agente in borghese incaricato di tenere d'occhio l'assembramento, mentre un gentiluomo dall'aspetto raffinato in abito da sera si materializzò al fianco di Fergie e la scortò fino alla macchina.
Creed, ora in ginocchio, aveva osservato attonito lo svolgersi degli eventi. Si sentiva in qualche modo distaccato dall'azione, come se venisse proiettata su uno schermo davanti ai suoi occhi, al rallentatore, per di più. Non gli ci era voluto molto per capire chi lo avesse aggredito e, naturalmente, perché. Quel maledetto stupido aveva rovinato ogni possibilità di scattare una foto decente...
Improvvisamente vide Sarah che si chinava per entrare nella Daimler, e tutto il suo corpo, tutta la sua psiche, si drizzò sull'attenti. Oh, grazie, Signore, grazie...
«Attenti, penso abbia una pistola!» urlò.
Seguì un tumulto di grida, imprecazioni e un rumore di pugni dalla mischia a qualche metro da lui. Ma soprattutto, meglio ancora, la duchessa di York, ancora china in avanti, voltò la testa con espressione allarmata.
Joe non ebbe neppure bisogno di pensare: il suo indice lo fece per lui. Click-flash. Simultaneamente.
Subito balzò in piedi in cerca di un'inquadratura migliore. Click-flash. Simultaneamente.
Un istante dopo il distinto accompagnatore era già nell'auto accanto a Fergie e chiudeva con forza la portiera. Un ultimo scorcio di occhi sbarrati in un viso improvvisamente pallido sotto una folta chioma rossa prima che la macchina sfrecciasse via con stridore di pneumatici.
Cercando di non sorridere troppo apertamente, Creed scattò una veloce, quasi sprezzante istantanea del terzetto che rotolava ai suoi piedi. Quindi sgusciò verso la jeep.
Introdusse con cautela la Suzuki nel garage, spense fari e motore, poi scese sbadigliando a richiudere la saracinesca. La testa aveva ripreso a dolergli, benché un rapido controllo indicasse che il rigonfiamento era ormai scomparso. Nonostante il mal di capo, ridacchiò fra sé (e non per la prima volta nel corso dell'ultimo paio d'ore) chiedendosi dove potesse essere Bluto in quel momento. In guardina, oppure occupatissimo a telefonare in giro in cerca di un meccanico capace di asportare una serratura senza produrre troppi danni alla portiera?
Creed aveva sviluppato personalmente le foto di quella notte nella camera oscura del Dispatch ed era rimasto deliziato dai risultati. Dopo aver stampato un ingrandimento di Fergie (in effetti, gli era parsa in gran forma, snella e vivace, ma con quella specifica angolatura e con un abito da sera fluttuante dalla vita in giù, l'esito era inevitabile) lo aveva deposto sulla scrivania di Blythe con il messaggio «Fai in modo che sia un Krug — me lo sono meritato!» Il vicedirettore del settore fotografico si era mostrato molto più interessato all'intrico di gambe e braccia sul marciapiede e Joe gli aveva fornito tutti i dettagli davanti a un whisky proveniente da una bottiglia tenuta a portata di mano in un classificatore.
Ora, nell'aprire la porta di comunicazione fra il garage e l'ufficio al pianterreno, si sentiva stanco, un po' dolorante, ma soddisfatto. Richiuse a chiave il battente, memore che l'intruso era penetrato da quella parte (dato che non apparivano segni di scasso, la polizia aveva ritenuto che lui si fosse dimenticato entrambe le serrature aperte).
Nell'ombra, vide brillare la luce rossa sulla segreteria telefonica.
Non fu del tutto sicuro di aver voglia di ascoltare i messaggi: in quel momento gli premeva soltanto bere qualcosa di forte, fumare una sigaretta e andare a dormire. Quando vivi da solo, però, è difficile non sentirsi attratto dalle comunicazioni provenienti dal mondo esterno.
Accese la lampada sulla scrivania e fece scorrere il nastro all'indietro. C'era un solo messaggio:
«Joe, sono Freddy, Freddy Squires. Ho fatto un controllo sulla foto che mi hai lasciato oggi, quella del picchiatello al funerale, ricordi? Credo di averti detto che mi sembrava una faccia familiare, e Wally Cole ha pensato lo stesso quando gliel'ho mostrata. Dato che lui è il fotografo con maggiore anzianità sulla faccia della terra, ho ritenuto che potesse ricordare qualcosa. Il guaio è che non può trattarsi di chi pensavamo, a meno che non sia un sosia. Te ne parlerò domattina.»
Creed sfogliò un'agenda di pelle sulla scrivania e trovò il numero di casa del direttore del settore fotografico, lo compose e si accese una sigaretta in attesa che qualcuno rispondesse all'altro capo della linea. Così fu, e la voce che finalmente ringhiò al ricevitore non era certo felice.
«Chi è?»
«Fred, sono io, Joe Creed.»
«Stai scher...? Ma lo sai che ore sono?»
«Alcuni di noi stanno ancora lavorando.»
«E alcuni di noi hanno un fottuto impiego diurno. Adesso spiegami che cazzo vuoi, e sarà meglio sia importante, figliolo.»
«Hai detto che quel tizio al funerale di Lily Neverless assomiglia a qualcuno che conosci.»
«Che cosa? Non posso crederci! Telefoni a quest'ora di... Joe, vai a farti un giro, vuoi?»
«Coraggio, Fred, ormai sei sveglio! Sul serio, è importante!»
«No, maledizione, non lo è affatto. Ci eravamo sbagliati, non può essere il tipo che credevamo.»
«Perché? Come fai a saperlo?»
«Perché mi sono preso la briga di verificare nei nostri archivi. Dannazione, vorrei essermene fregato, se questa è la ricompensa per i miei sforzi. Si tratta senz'altro di un sosia, visto che la persona cui avevamo pensato io e Wally è morta da tempo, impiccata oltre cinquant'anni fa.»
Click.
10
d opo aver deposto il ricevitore Creed si sentì turbato, come se la notizia appena appresa da Squires possedesse un significato sconvolgente. Un'idea ridicola, naturalmente. L'uomo che aveva fotografato al cimitero assomigliava a un tale impiccato cinquant'anni prima. E con ciò? Lui stesso aveva un amico che era il ritratto sputato dello Squartatore dello Yorkshire, mentre il vicedirettore della sua banca avrebbe tranquillamente potuto spacciarsi per Heinrich Himmler (anche le loro personalità non erano dissimili, a dire il vero). Si sostiene che tutti abbiano un doppio. Ad ogni modo, poi, cinquant'anni erano davvero un sacco di tempo: un individuo sarebbe cambiato considerevolmente.
Scrollò le spalle. Ma di che diavolo andava vaneggiando? Non poteva esistere alcun legame, a meno che, naturalmente, il folle non fosse imparentato con l'impiccato. Questa sì, sarebbe stata una prospettiva interessante. D'altro canto lui, Creed, era un fotografo, non un giornalista: storie del genere non facevano parte delle sue competenze. Eppure si trattava di un fatto singolare, da qualsiasi lato lo si esaminasse. Perché l'atto osceno sui resti di Lily Neverless, un comportamento assai simile a un rituale nel suo doppio circuito attorno alla tomba? Sconcertante, molto, molto sconcertante.
Joe salì le scale e Grin lo raggiunse in cucina.
«Spero tu sia stata molto occupata», osservò lui arcigno mentre la gatta si appollaiava sul tavolo a osservarlo. «Hai parecchio da farti perdonare, cara mia.» Si sporse in avanti per mostrare al felino il livido sulla fronte.
Grin parve compiaciuta.
«Okay, ne ho abbastanza del tuo sarcasmo. Vai ad acchiappare i topi.» La spazzò via dal tavolo con mano ferma e la gatta scomparve dietro la porta agitando la coda.
Per quanto stanco, Creed si sentiva ancora leggermente eccitato a seguito dell'evento principale di quella notte. Si tratta di una condizione legata al lavoro, normalmente quando è stato conseguito un «risultato»; la gente di spettacolo e gli sportivi hanno lo stesso problema dopo le rispettive prestazioni. Anche l'informazione di Freddy Squires lo stava tuttora assillando.
Dove aveva messo le foto del folle? Si guardò attorno per la cucina. No, era certo di aver lasciato la busta sul tavolino in soggiorno.
Lì, però, non riuscì a trovarla e neppure altrove nella stanza. Controllò nell'ufficio al piano inferiore, quindi ispezionò addirittura il retro della jeep; cercò nelle due stanze nell'attico. Niente: sembrava che la busta si fosse volatilizzata.
Scese la scala a chiocciola, perplesso e agitato nel contempo. Le fotografie non potevano essere svanite, ed era sicuro di averle portate a casa dopo averne lasciata una a Squires al giornale. Che cosa stava succedendo?
Qualcuno si era nuovamente introdotto nell'edificio. Era l'unica conclusione concepibile. Si versò un brandy e accese una sigaretta. Ma come? Non esistevano segni di intrusione e poco prima, per entrare, aveva dovuto usare la chiave per aprire le serrature del garage e dell'ufficio. La risposta lo colpì come una scarica elettrica.
La ragazza, Cally. L'aveva lasciata sola in soggiorno quando era andato a prendere il vino, poi di nuovo qualche minuto più tardi, quando il telefono si era messo a squillare. La busta con le fotografie si trovava proprio davanti a lei sul tavolino, mentre lui era dabbasso in ufficio a rispondere alla chiamata. Si era fermato al piano inferiore per una decina di minuti, forse un quarto d'ora, e Cally aveva preferito non trattenersi molto oltre, con sua gran delusione. Cristo, non avrebbe avuto la minima difficoltà a nascondere la busta nella borsa. No, no, non poteva essere vero: perché diavolo avrebbe voluto prenderla?
Che motivo poteva avere Cally per rubargli quelle foto? Non aveva alcun senso. Lei era un'estranea. Già, lei era proprio un'estranea. Esattamente. Che cosa accidenti sapeva di lei? Ripensandoci, i motivi addotti dalla ragazza per poterlo conoscere erano un tantino inconsistenti. D'accordo, le aspiranti celebrità e le stelline lo usavano spesso per intenti promozionali, facendogli sapere in anticipo dove si sarebbero trovate in un determinato momento o invitandolo ai vari eventi mondani nella speranza di comparire nell'edizione del Dispatch del giorno successivo, ma l'approccio di Cally era stato forse il più palese che avesse mai sperimentato. E poiché era bella e gli aveva fatto fremere i genitali, lui si era lasciato fregare. Chi, che cosa era quella ragazza?
Aspirò una boccata di fumo, più confuso che arrabbiato; lo sforzo di riflettere gli acuiva il mal di testa.
Domani le avrebbe telefonato per scoprire a che gioco stesse giocando. E se si fosse sbagliato? E se davvero a lei fosse premuta soltanto la promozione del suo capo, quel Daniel vattelapesca? In tal caso si sarebbe sentito uno stronzo, ecco tutto. E non per la prima volta nella sua vita. L'interrogativo, però, continuava ad assillare: chi aveva preso le foto, e perché? La stessa persona che era penetrata in casa la notte precedente? Forse vi si era introdotta di nuovo, servendosi del mazzo di chiavi di scorta che aveva trovato in giro. Tutto questo, comunque, non spiegava ancora per quale motivo.
Conoscete la sensazione di essere osservati, di occhi puntati sulla nuca? Può accadervi in un bar, su un treno, in un locale affollato: di colpo avvertite che i pensieri e lo sguardo di qualcuno sono fissi su di voi, voi soltanto. Creed provò una sensazione del genere proprio in quel momento.
Aveva appena ingollato un sorso di brandy e il bicchiere si trovava a qualche centimetro dalle sue labbra quando la sua mano rimase paralizzata a mezz'aria. Per un attimo si sentì stordito, mentre il fumo della sigaretta creava un'impalpabile nebbiolina davanti a lui. Impiegò un certo tempo a voltarsi in direzione della finestra.
Parte del brandy gli schizzò di bocca e il resto gli si bloccò in gola, facendolo prima ansimare, poi tossire violentemente. Balzò in piedi, proiettando all'indietro la sedia, e si aggrappò ai bordi del tavolo per sostenersi.
Non voleva guardare di nuovo la finestra, si rifiutava di vedere l'orribile viso cadaverico che lo stava osservando dall'esterno, ma si costrinse a girarsi perché sapeva che era assolutamente al di là di ogni logica, che non poteva esserci nessuno. La cucina si trovava sopra il garage e l'ufficio, il che rendeva impossibile a chiunque giungere a quell'altezza; se fosse stata usata una scala, la si sarebbe udita grattare contro il muro o urtare il davanzale. Dunque, nessuno poteva essere là fuori, non era concepibile...
Si forzò di guardare.
E non vide nulla. Nessun viso scarno e incavato simile a un teschio, nessun occhio irato che lo osservava da orbite scure e infossate. Niente di niente.
Con riluttanza, si avventurò fino alla finestra.
La strada sottostante era vuota, esattamente come ci si poteva aspettare a quell'ora di notte. Un sacco d'oscurità, però, una quantità di posti in cui nascondersi. Eppure, in nessun modo qualcuno sarebbe riuscito a salire al primo piano. In nessun modo...
Il dolore alla testa si era spostato: invece di martellargli alle tempie e fra gli occhi, sembrava ora occupare uno spazio nella parte alta della nuca. Creed si tastò i capelli, quasi volesse tentare di riportarlo nel suo luogo d'origine, ma senza alcun risultato. Commozione cerebrale ritardata? Si trattava forse di questo? Forse avrebbe davvero dovuto farsi visitare da un medico. Una commozione cerebrale poteva provocare allucinazioni? Non ne aveva la minima idea.
Tornò al tavolo e terminò il brandy. Il viso che aveva appena scorto, anzi, immaginato, apparteneva all'intruso della notte precedente, il signor Nosferatu. Rabbrividì. Un vampiro era in grado di strisciare su per i muri, vero?
Fondamentalmente (come vi sarete già accorti) Creed era un cinico praticante, disilluso del mondo, miscredente e tutto concretezza. La sua unica, ferma convinzione riguardava la propria stessa esistenza, fatto da lui accettato solo perché non richiedeva alcun atto di fede. Poteva percepire, provare emozioni, vedere, udire, gustare, addirittura pensare. E tutto ciò era irrefutabile. Per quanto concerneva il resto, il problema non lo interessava, per non parlare della filosofia relativa. La realtà era soltanto un'illusione della mente? L'esistenza non era altro che un sogno elaborato? Un individuo esisteva unicamente in quanto gli altri lo percepivano? In sostanza, a Creed non fregava un accidente. Fornico, quindi sono, ecco il suo credo. Di conseguenza, visto che la sua immaginazione si era impigrita riguardo a simili astrazioni, gli appariva ovvio che la botta in testa stava giocando brutti scherzi al suo cervello.
E forse non aveva del tutto torto.
Prendendo dal posacenere la sigaretta fumata a metà, percorse il breve tragitto fino al bagno, dove aprì l'armadietto dei medicinali e ne estrasse una scatoletta di aspirina. Inghiottì quattro compresse, aiutandosi con l'acqua del lavabo. Il viso che lo fissava dallo specchio non era incoraggiante: occhi cerchiati e iniettati di sangue, carnagione giallastra e un livido violetto sulla fronte. Sporse la lingua e fu sollevato nel notare che perlomeno quella sembrava sufficientemente sana.
Si spostò davanti al water e aprì la cerniera dei pantaloni, la sigaretta di nuovo al proprio posto, penzolante all'angolo della bocca. Rimase a guardare il getto di urina, non perché fosse particolarmente interessato, ma tanto per accertarsi che colpisse il bersaglio. Sotto la cascata, l'acqua della tazza cominciò a ribollire.
Joe appoggiò una mano contro la parete per mantenere l'equilibrio: il suo corpo aveva ondeggiato. Sbatté le palpebre e si sentì nuovamente traballare. Cristo, di questo passo avrebbe finito con il pisciare sul pavimento. Questa volta cercò di riequilibrarsi mentalmente ed esercitò una certa pressione muscolare per svuotare più velocemente la vescica.
Un ennesimo movimento. Ora, però, si accorse che non si trattava di lui, bensì del water. La tazza di porcellana pareva essersi piegata verso l'interno per una frazione di secondo. «Ragazzo mio, sei nei guai», borbottò fra sé. Aveva bisogno di sdraiarsi, di strisciare nella propria buca e di tirarsi le coperte sopra la testa per allontanare quest'allucinazione con il sonno. Oh, Cristo, ricomincia di nuovo! Il water si stava muovendo, come se i suoi lati si contraessero e si flettessero — respirassero. Il flusso della sua vescica andava riducendosi, trasformandosi in uno sgocciolio, e lui cercò di affrettare la conclusione. Uno zampillo, quasi fatto. Grazie a...
Oh, Dio, stava succedendo qualcos'altro. Laggiù, proprio al di sopra dell'acqua, sembrava che la porcellana stesse per scoppiare. La sigaretta gli cadde dalle labbra e piombò nel buco con uno sfrigolio nel momento in cui il rettangolo lucido sotto di lui assumeva una forma ovale e frastagliata. Si contrasse ancora una volta, diventò ancora più ovale e i suoi orli parvero trasformarsi in... quelli che... sembravano... oh, merda... denti...
Stava guardando in una bocca di porcellana!
Joe si sentì cedere le ginocchia.
Completamente sconvolto, riuscì tuttavia a raddrizzarsi di scatto e ad arretrare quando la bocca irta di zanne e bagnata di urina balzò dal fondo della tazza, i lati che si allungavano come fossero elastici, e si chiuse con violenza nel punto in cui lui si trovava fino a meno di un secondo prima.
Un getto d'acqua mista a urina lo inzuppò, e Creed urlò cadendo all'indietro. La bocca avanzò verso di lui, protendendo il lungo collo gocciolante, il rumore dei denti di porcellana che si aprivano e si richiudevano forte e secco nel bagno rivestito di piastrelle. Quindi, all'improvviso, scomparve nella cavità da dove era venuta.
In uno scomposto turbinio di gambe, Joe si spinse al capo opposto della stanza (che non era affatto distante) e giacque sul pavimento attonito e tremante, incapace di afferrare l'accaduto, eppure credendovi implicitamente. I suoi vestiti erano fradici e il suo pene si era (comprensibilmente) ridotto a dimensioni insignificanti in qualche punto dentro i pantaloni.
Oh, santo Dio, che cosa gli stava capitando? Questa era una follia, un incubo, un brutto viaggio con l'LSD. Cose del genere non potevano succedere, non potevano essere reali. Colpa della sua testa, tutto scaturiva da lì. Gli serviva un medico, ne aveva un disperato bisogno.
Si sollevò con sforzo sulle ginocchia, gli occhi fissi sul water che se ne stava impassibile (impassibile ma in attesa) all'altra estremità del bagno. Sostenendosi al bordo della vasca da bagno, con riluttanza (ben sapendo che quanto era accaduto non poteva assolutamente essere vero) avanzò lentamente verso la tazza. Aveva avuto un'allucinazione, ne era certo, eppure doveva assicurarsi, garantirsi, che niente si celasse davvero laggiù, né bocca, né denti, nulla. Che tutta la faccenda fosse stata uno scherzo della sua mente.
Si fece più vicino, osando a malapena respirare. Scosso da tremiti e accucciato in modo malfermo sulle gambe, sbirciò oltre l'orlo: solo acqua stagnante, leggermente verdastra, un mozzicone di sigaretta galleggiante sulla superficie.
Ciononostante, chiuse in tutta fretta il coperchio della tazza.
Per qualche tempo rimase lì a terra, cercando di riacquistare lucidità, il respiro affannoso. Non si sentiva per niente bene.
Gradualmente, la ragione prevalse sulla follia, come di solito, o perlomeno alla fine, accade alle persone perfettamente sane quando si è verificato qualcosa di ridicolmente illogico. Avrebbe dovuto farsi esaminare il bernoccolo, ecco tutto. Nessuno poteva cavarsela dopo una caduta simile senza soffrire di disturbi ben peggiori di un semplice mal di testa. Le cellule cerebrali erano state strapazzate, e questo era il risultato. Probabilmente, l'alcol bevuto quella sera non gli aveva giovato affatto. Gemendo più per autocompassione che per dolore, strisciò fino alla porta e si rimise in piedi appoggiandosi alla maniglia.
Aveva gli abiti bagnati, ma non ne fu sorpreso: per quanto lo riguardava, anche questo faceva parte dell'illusione. Guidato dalla luce in cucina, barcollò lungo il breve corridoio e crollò letteralmente in camera da letto. Un po' di riposo, si disse, ho solo bisogno di appoggiare la testa a un cuscino per qualche ora. Troppo tardi, anzi, troppo presto per telefonare a un dottore. D'altro canto, che cosa potrebbe suggerirmi? Di prendere un paio di aspirine, ovviamente. Una bella notte di sonno avrebbe fatto meraviglie. Passi da me durante l'orario di visita. Grazie infinite, dottore. Forse dovrei chiamare un'ambulanza. Ma certo, quella era l'idea più assennata. Solo, solo un attimo di riposo, però. Un sonnellino.
Inginocchiato sul letto, cominciò a togliersi i vestiti, maneggiandoli con attenzione perché erano umidi e odoravano di urina. Ma era tutta un'impressione, vero? No, Creed, è solo la tua testa, un semplice risultato dei danni inferti al tuo cervello. Cristo, che casino.
Messe da parte giacca e camicia, si sedette e si liberò delle scarpe con un calcio, poi si tolse pantaloni e slip. Sbarazzarsi dei calzini si rivelò la parte più difficile.
Nudo, piombò all'indietro sulla trapunta. Non ne aveva avuto la minima intenzione, ma non poté farne a meno: si mise a ridacchiare. Pazzo. Una bocca che schizzava fuori dal water per azzannargli l'uccello. Oh, Gesù, Madonna! Prima che lo sfinimento lo sopraffacesse completamente, si infilò sotto le coperte, tirandosele fino al collo, bisognoso del loro conforto. Giacque così, nudo e a braccia aperte, e stranamente l'inizio del suo sogno fu abbastanza piacevole.
Ma il risveglio non fu piacevole per nulla.
Nel sogno, in principio era sdraiato su una spiaggia, con il sole che gli riscaldava lo stomaco. I rumori del mare erano rassicuranti e i gabbiani volavano in cerchio sopra di lui. Rilassante, pieno di pace. Rivoli di sabbia che gli scorrevano sul petto, poi manciate, fin quasi a ricoprirlo. Ventre, inguine, cosce. Strizzava gli occhi alla luce del sole, mentre improvvisamente un'ombra gli bloccava la vista. Sei tu, Sammy? Stai seppellendo il tuo papà, vero? D'accordo, divertiti pure. Costruiscimi un castello sul torace, ma tienimi lontana la sabbia dalla bocca, figliolo, perché ritrovarsela fra i denti non è piacevole. Coraggio, vacci piano adesso, stai esagerando. Non sono ancora morto, ragazzino. Sammy, te lo ripeto, non buttarmi la sabbia sulla faccia.
Il sole si era affievolito. Non lo aveva nascosto una nuvola: era semplicemente svanito, andato via. E lui non si trovava più sulla spiaggia. Tutt'attorno si innalzavano monumenti di pietra, alcuni pericolosamente inclinati, quasi tutti in rovina, coperti di lichene e incrinati: lastre di pietra dalle iscrizioni difficili da decifrare. Lapidi.
La sabbia si era trasformata in grandi grumi di terra, umida e spessa, odorosa e soffocante. Piantala, Sammy, ne ho avuto abbastanza.
Ma non era cambiato soltanto lo scenario: anche suo figlio era diverso.
Il suo viso era invecchiato e appariva stanco e segnato. Gli occhi erano fissi. Il suo corpo, persa ogni traccia di rotondità infantile, era scarno. Assomigliava a qualcun altro...
Una manciata di fango smorzò il grido di Creed, che si sentì soffocare e sputò ripetutamente. Tentò di muoversi, ma la terra gli premeva addosso, gli comprimeva il petto, rendendogli difficile il minimo spostamento, per non parlare di gridare, urlare. Lo stavano seppellendo vivo, ma non suo figlio, bensì qualcun altro, un individuo dall'aria familiare, non esattamente familiare, un estraneo che aveva già visto altrove, un uomo esile dall'impermeabile di garbardine intento a scavare, a sollevare ridendo palate di terra, e a gettarle su di lui, ricoprendogli il corpo, le braccia, le gambe, il petto, la, oh, Dio, no, la faccia...
Si svegliò di soprassalto.
Sentì freddo, anche se le coperte erano ancora tirate sino al collo. Si chiese che cosa avesse sognato. Niente di bello, ne era certo. Qualcosa che aveva a che fare con le tombe. Già, chi lo avrebbe mai detto?
Sollevò la testa dal cuscino e guardò ai piedi del letto. Alla luce della luna che filtrava dalla finestra aperta notò di avere i piedi scoperti. Ecco perché aveva così freddo. Erano come blocchi di ghiaccio, con gli alluci completamente insensibili. Agitarli non servì a migliorare la circolazione. Appoggiato su un gomito, si sporse per sistemare la coperta, ma qualcosa di nero e guizzante attrasse il suo sguardo. Era venuto dal bordo del materasso, come se fosse salito dal pavimento, per poi scomparire sotto la trapunta.
Prima di riuscire a scalciare, si accorse di altri movimenti nel letto accanto a sé e avvertì una sensazione non dissimile dalla pelle d'oca.
Poi scorse un altro esserino nero infilarsi velocissimo fra le coperte.
Balzò fuori dal letto, quasi inciampando negli abiti ammucchiati a terra. Andò a sbattere contro la porta e si mise ad armeggiare sulla parete in cerca dell'interruttore. Lo trovò e accese la luce.
Si riparò immediatamente gli occhi con la mano, momentaneamente accecato dal bagliore improvviso, quindi sollevò lentamente il palmo: sul pavimento attorno al letto c'era soltanto il cumulo di vestiti. Davvero aveva visto un ragno — anzi, due — scomparire sotto la trapunta? O si era trattato unicamente di un residuo del sogno? In ogni caso, per quanto non gli piacessero, gli animaletti striscianti di certo non lo spaventavano. Non molto, perlomeno.